UN GIORNO DI FESTA di Joyce Maynard

Fu di nuovo uno di quei momenti in cui, per un attimo, appena ti svegli, non ricordi quello che sta succedendo. Aprendo gli occhi nella mia camera dove mancava tutto, impiegai un po’ a capire persino dove mi trovassi. Poi mi tornò in mente tutto quanto.


Trama

A tredici anni, Henry si sente separato dal mondo. Vive con sua madre Adele, una donna bella e triste, che dopo un divorzio difficile si è chiusa in se stessa; ha poche occasioni di svago e nessun amico, finché nel fine settimana del Labor Day un uomo dai vestiti sporchi di sangue lo avvicina al supermercato, chiedendogli aiuto. Si chiama Frank e rivela di essere evaso dall’infermeria del penitenziario, ma nonostante il rischio Henry e Adele non esitano ad accoglierlo in casa con loro. E in pochi, intensissimi giorni, la loro vita cambia radicalmente: Adele riscopre la passione con Frank, che cerca di redimersi da un tragico errore; Henry trova finalmente una figura paterna, con cui imparare a giocare a baseball, a cucinare una torta perfetta, a confrontarsi con la gelosia e l’amore. Così, mentre fuori la polizia dà la caccia a Frank, in casa il tempo sembra scorrere lento, racchiuso nell’intimità di una famiglia ritrovata.

Delicato e avvincente, Un giorno di festa parla di un ragazzo che affronta la difficoltà di crescere, di un pericolo che si trasforma in rinascita, di destini che si intrecciano all’improvviso per un gesto di fiducia. Dopo L’albero della nostra vita, Joyce Maynard tesse una trama perfetta, in cui le vite di tre persone cambiano in un unico, travolgente weekend, aprendosi alla speranza della felicità.


Recensione

La salvezza può assumere tante forme. La salvezza può giungere all’improvviso, in soccorso di qualcosa che va alla deriva.

Qualcosa che non ha a che fare con noi, perché chi ha bisogno di un salvagente, non si salva da solo. Si lascia trasportare dalla corrente. Sballottare dai flutti, lasciando aperta la possibilità di inabissarsi.

Henry e sua madre Adele si trascinano da diversi anni in una simile situazione. Da che il padre di Henry li ha lasciati, Adele è scivolata in un torpore sempre più avvolgente. Non ha più amici, non esce più di casa, non ha un lavoro. Henry ha tredici anni e si rende perfettamente conto che la madre sta ad un passo dalla follia, mentre lui è in continua lotta con il suo corpo, che si sta trasformando, con nuove forme e nuovi inquietanti desideri, che Henry cerca di decifrare e di manovrare a suo favore, per staccarsi di dosso l’etichetta dello sfigato di turno.

Un duo insolito, destinato ad un futuro sempre più cupo e solitario. Finchè un giorno, durante una delle rare visite al centro commerciale, Frank si insinua nella loro vita.

Adele e Henry si lasciano attraversare da questa apparizione e ospitano Frank a casa loro. Frank è evaso dal carcere e ha bisogno di nascondersi per un po’.

Inizia così una convivenza forzata che sin da subito si rivela sorprendente. Frank è gentile e premuroso. Si occupa della casa e dei suoi mesti abitanti, portandovi una ventata di aria fresca, che profuma di occasioni mancate, di possibilità, di muri che si sgretolano, di barriere che cadono e di interesse, di fiducia. Un’apertura improvvisa e salvifica che scuote Adele dal suo sonno e apre ad Henry una breccia nel cuore. All’improvviso l’eco dell’idea di una famiglia felice si affaccia su ognuno di loro, mostrando la tenerezza, la forza e l’ebrezza di essere amato, di avere una spalla cui appoggiarsi. Di non essere più solo, di poter consegnare la propria vita nelle mani di un’altra persona.

Ma ogni piccola felicità ha il suo conto da pagare. E il tarlo del dubbio, della gelosia, della paura inizia a rosicchiare dall’interno.

Fidarsi, abbandonarsi al nuovo, abbracciare l’avventura, lasciarsi tutto alle spalle. Tutto questo può spaventare e indurre nell’errore.

“Un giorno di festa” parla di occasioni perdute e della felicità, una luce accecante e caldissima che illumina e scalda da lontano, ma che da vicino brucia.

E’ quell’altalena che ogni giorno ci culla, portandoci in alto, in un’ascesa estatica e vertiginosa e, subito dopo, trascinandoci al punto di partenza, in basso, dove la banalità di ogni giorno ci schiaccia ma è anche rassicurante.

La felicità è vicina, basta allungare la mano. Ma a volte non lo si fa abbastanza e perdiamo quell’attimo benedetto e salvifico. E allora bisogna aspettare che la felicità passi nuovamente da noi, con pazienza.

E poi passa, prima o poi accade. E allora non vi saranno più dubbi, né timori. Allungheremo la mano, fino a sporgersi sul precipizio, e afferreremo quella felicità che già ci apparteneva ma che abbiamo lasciato andar via.

Joyce Maynard ci ha abituati alla bellezza delle sue trame e alla soavità della sua prosa. Bella, intima, parla sottovoce ma scava gallerie e cunicoli nella nostra memoria. Un romanzo davvero bellissimo, che parla il linguaggio della felicità e della speranza. Un libro che ci esorta a credere nel prossimo e anche in noi stessi. Che ci dice di non chiudere la porta a chiave, ma di lasciarla socchiusa, sempre. Qualcuno varcherà la soglia, prima o poi.


L’autrice

Joyce Maynard è una scrittrice e sceneggiatrice americana, giornalista per il New York Times, Vogue, O, The Oprah Magazine, e The New York Times Magazine. Ha pubblicato diciassette libri, tra cui At Home in the World, che racconta la sua relazione da giovanissima con J.D. Salinger. Il suo romanzo To Die For è diventato il celebre film Da morire, così come Labor Day, di prossima pubblicazione per NNE, è stato portato sul grande schermo da Jason Reitman.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Traduzione: Federica Merani
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 236

SLEEPWALK di Dan Chaon

Il problema, quando tieni tutte le parti della tua vita accuratamente separate e impacchettate, è che diventa più difficile fare un passo indietro e osservare il quadro generale. E’ un pensiero terribile immaginare che tutti i pezzi che hai messo sottochiave, tutto ciò che consideravi a sé stante, potrebbe invece essere collegato. Potrebbe formare uno schema.


Trama

Will Bear ha cinquant’anni e non ha mai avuto un vero lavoro, mai pagato le tasse, mai avuto una relazione seria. Si è costruito una vita senza radici né legami, a parte l’amica d’infanzia, Experanza; e a bordo del suo camper, la Stella Polare, attraversa un’America senza più leggi, controllata da droni e milizie private, svolgendo losche commissioni per conto di una fantomatica società di servizi, in compagnia di un vecchio cane da combattimento affetto da stress postraumatico. Un giorno, su uno dei suoi tanti cellulari, riceve la telefonata di una certa Cammie, che gli dice di essere sua figlia e di essere in pericolo. Nonostante i sospetti iniziali, Will si fida di lei. E mentre sente fiorire dentro di sé un autentico affetto paterno, comincia a dubitare di tutto e di tutti, diradando la nebbia che avvolge il suo passato e la sua identità. Dopo La volontà del male e Il riflesso del passato, Dan Chaon torna con un romanzo di frontiera, una fuga rocambolesca e allucinata, una sleepwalk da un mondo dilaniato da controllo sociale, pandemie e cambiamento climatico. E alternando bonaria ironia e malinconica consapevolezza, posa il suo sguardo sull’amore, l’empatia e l’istinto, forze primordiali in grado di regalare sempre un’altra possibilità, anche quando tutto sembra perduto.

Questo libro è per chi butta una monetina in una fontana affidandosi a una magica speranza, per chi va matto per Il grande Lebowski dei fratelli Coen, per chi si diverte a regalare saggezze agli sconosciuti incontrati per strada, e per chi ogni tanto vorrebbe risvegliarsi da un lungo sonno su un’isola deserta, e ricominciare tutto daccapo.


Recensione

In un futuro neanche troppo lontano, in cui l’uomo vive attorniato e assediato da intelligenze artificiali dalle sembianze antropomorfe che controllano tutto e tutti, Billy conduce un’esistenza border line. Lavora sotto mentite spoglie al soldo di sedicenti organizzazioni che gli affidano lavori sporchi, persino omicidi su commissione.

Vive in un camper insieme a Flip, il suo cane, e si è costruito una vita che apparentemente sembra dargli soddisfazione e autonomia.

La sua storia, del resto, è problematica. E’ cresciuto con una madre disamorevole, che lo ha trascinato dentro storie illegali e pericolose, insegnandogli a sopravvivere in un mondo dove esistere è già una scommessa e dove la vita e la morte sembrano divise da una linea sottilissima. Vive sospeso al niente, come se non esistesse, dato che la sua vita sfugge continuamente alle maglie della giustizia e della legge.

Nonostante tutto, a suo modo Billy è un uomo empatico. La corazza che le esperienze gli hanno cucito addosso ha ancora spiragli entro i quali entra e esce una corrente di umanità e di senso morale. Il segreto, come spesso accade, è tenere sotto controllo la mente, i ricordi, le sensazioni. Tutto ciò, insomma, che potrebbe innescare in lui la necessità di una riflessione, di un confronto. Tutto quello che potrebbe fargli riavvolgere il nastro della sua vita, fino a scandagliare il perché di quella sua vita sotto traccia, constantemente alle prese con la violenza e il sangue.

Ma ecco che qualcuno bussa sulla sua spalla. E che innesca un processo irreversibile, così forte e inarrestabile da mettere in discussione tutto. E all’orizzonte spunta un complotto di dimensioni gigantesche. Che mette Billy sotto il riflettore di fantomatiche figure che praticano forme insolite di eugenetica.

La sua corsa lungo le strade americane diventa una vera e propria fuga. E per ogni chilometro macinato spunta un ricordo, una consapevolezza e una amara verità, che porta Billy a riconsiderare tutta la sua vita.

Valori come l’amicizia, la libertà, l’onestà saranno travolti da eventi giganteschi e assurdi. E nuove forme di schiavitù si materializzeranno e distruggeranno l’intero mondo di Billy, un puro , sebbene dentro a confini discutibili.

Dan Chaon costruisce un angolo di mondo distopico ma anche denso di speranza, in cui l’uomo ricostruisce la sua natura di essere sociale e benevolo prendendo le distanze da tutto ciò che vuole sperzonalizzarlo e manipolarlo.

Una storia che fa affiorare l’umanità anche dove regna il disordine e l’egoismo più duro. Un romanzo che sottolinea in modo perfetto l’inossidabile capacità dell’uomo di ritrovare se stesso e la sua natura anche dentro ad un destino che vuole schiacciarlo e ridurlo a mera materia senza anima.

La scrittura di Chaon è perfetta. Intima, introspettiva, piena di sensibilità. Interpreta magistralmente pensieri, speranze, paure di un uomo inconsapevole, a cui la vita ha negato tutto. E getta un cono di luce dentro la nostra società, che pare avviarsi su sentieri che poco si discostano dalla realtà che l’autore narra in questo romanzo. Focalizzando la prepotenza del controllo e il potere del conformismo. L’appiattimento della personalità e la fugacità dei ricordi, labili ali che sanno essere selettive, ingannatrici e subdole. Capaci di disegnare un quadro che sia accettabile, senza la pretesa di essere plausibile.


L’autore

Dan Chaon vive a Cleveland, Ohio e insegna all’Oberlin College. I suoi racconti, Among the Missing (di prossima pubblicazione per NNE), sono stati finalisti al National Book Award, mentre i romanzi successivi, tra cui Il riflesso del passato, hanno ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui lo Story Prize e l’Academy Award in Literature. Suoi scritti sono apparsi in Best American Short Stories, The Pushcart Prize Anthology, e The O. Henry Prize Stories. La volontà del male, finalista al Shirley Jackson Award, è stato un bestseller negli Stati Uniti e in tutti i paesi europei.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Traduzione: Silvia Castoldi
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 389

IL CORPO RICORDA di Lacy M. Johnson

Mi sembra talmente fragile, questa mia vita.


Trama

È la notte del 5 luglio 2000 quando Lacy M. Johnson fugge dal seminterrato in cui l’ex fidanzato l’ha rinchiusa con l’intenzione di ucciderla. Lacy ha ventidue anni e lui è stato, prima, il suo insegnante all’università, e poi l’uomo con cui ha convissuto per anni, in una relazione segnata da violenze e soprusi. Fino alla sua decisione di lasciarlo, e al fatidico ultimo incontro. Alla polizia Lacy racconta cosa è successo, e quelle parole diventano un peso insostenibile, un marchio a cui è impossibile sottrarsi, ma anche una cura, l’unico antidoto per elaborare il trauma. La ricerca di una giustizia interiore si confronta con la tenace memoria del corpo e, avanti e indietro nel tempo, Lacy ripercorre la relazione con lui, le esperienze di sesso e dipendenza, intrecciando il suo racconto con i rapporti della polizia, le valutazioni degli psicologi, gli incubi ricorrenti, nel tentativo di guarire e perdonarsi. Il corpo ricorda è una testimonianza illuminante, dolorosa e intimamente poetica. Senza mai cadere nell’autocommiserazione, Lacy M. Johnson si interroga sul significato profondo, culturale e sociale, dell’essere oggi una vittima di violenza di genere, ma al tempo stesso ne rifiuta l’etichetta e, grazie alla scrittura, trasforma il trauma in un coraggioso slancio verso la vita e l’amore. Questo libro è per chi sa che il corpo non è una superficie statica ma un varco vivente, una memoria perfetta capace di guidarci verso il futuro.


Recensione

La copertina rosa acceso richiama subito alla mente il romanzo di Megan Nolan, Atti di sottomissione, che ha inaugurato la collana “Le fuggitive”.

Un altro memoir, ugualmente crudo. E una donna che si piega alla dirompenza di un sopruso, di una violenza. Fisica, verbale, intima. Una donna che va a pezzi e che cerca di ricomporre il puzzle della sua esistenza. Con volontà, con dolore, con consapevolezza.  Senza ricorrere alla commiserazione. Vivisezionando il proprio io, alla ricerca delle radici di un errore. Cercando disperatamente di non accollarsi la colpa di una sconfitta. Perché la sofferenza, spesso, appare come una punizione. Un dolore che si poteva evitare ma che non si è riusciti a governare. A domare.

Per Lacy la vita si divide in due parti: prima e dopo il sequestro.

Prima la vita era piatta, senza scossoni. Dopo è diventata una lotta quotidiana contro i ricordi. Contro la cocente delusione di non aver mai smesso di pensare a lui. Lui, che manca più dell’ossigeno. Lui che l’ha uccisa dentro, lentamente.

Lui che manca. Eppure ha distrutto Lacy. Manipolata, violentata, annientata.

E Lacy denuncia. Cerca giustizia. Inutilmente, peraltro. E continua a vivere accanto all’ombra dell’uomo che l’ha sequestrata. Un ombra che rifugge ma che ricerca disperatamente.

E quelle ore, dentro ad una stanzetta sporca e insonorizzata, diventano lo spartiacqua della sua vita. Quella vita che pochi mesi prima era orrore ed estasi. Paura e sottomissione. Annullamento e rinascita.

Lacy M. Johnson scrive questo memoir e in esse si fonde, diventando un tuttuno con le pagine.

Lacy sa che l’amore che ha provato era una miccia pronta ad esplodere. Un’esplosione che è stata totalizzante e che ha cancellato ogni sua certezza. La vita ha continuato a scorrere ma il sequestratore, un uomo che ha anche amato intensamente, appare ricorrentemente tra i pensieri, impigliato nelle ciglia,  sull’argine dei sogni. Lacy ricostruisce la sua vita ma rimane ancorata al ricordo di quella violenza. Con chiarezza ricostruisce l’ossatura di un sentimento che l’ha portata ad un passo dalla morte e sulle ceneri di questo amore prova a ripartire, pur senza dimenticare.

“Il corpo ricorda” racconta senza pudore lo stridore acuto della dicotomia tra mente e corpo. La mente che registra l’aberrazione profonda di una violenza e il corpo che ricorda le posizioni dell’amore, i suoi gesti, l’estasi di una carezza e il dolore di un pugno. Il corpo sa. Il corpo ricorda. Il corpo non sbaglia mai. Le sue sensazioni, le sue preveggenze sono come oro colato. Precise, millimetriche, senza margine di errore.

Ma la mente è un passo avanti al corpo. Registra ogni gesto, lo cataloga e sa dargli un nome. E soffre il sopruso, la violenza. Sa cosa è giusto e cosa è sbagliato. Il corpo arranca a fatica e per un solo gesto soccombe, capitola, perdona, dimentica.

Lacy M. Johnson incanta il lettore con una prosa intima e sfacciata, e ripercorre le tappe di un rapporto che nasce malato e finisce in tragedia. Come un bisturi, la sua penna affilata sa incidere la pelle lasciando una cicatrice profonda e purulenta. E mentre taglia, dispensa poesia ed estasi come fossero balsamo. E leggerla è un colpo al cuore. La lettura come condivisione. E la scrittura, medicina per chi scrive.

Guardarsi dentro non è mai stato così sfiancante. Per Lacy e per tutte noi.


L’autrice

Lacy M. Johnson (1978) è una scrittrice, docente e attivista americana, e vive a Houston. Il corpo ricorda è stato finalista al National Book Critics Circle Award for Autobiography, al Dayton Literary Peace Prize, e all’Edgar Award for Best Fact Crime; è stato selezionato tra i migliori libri del 2014 da Kirkus, Library Journal e Houston Chronicle. Il suo libro successivo, The Reckonings (2018), è stato finalista al National Book Critics Circle Award for Criticism. 


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Traduzione: Isabella Zani
  • Collana: Le Fuggitive
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 200

IL PESO di Liz Moore

Ero meditabondo. Dentro, tremavo tutto. Sentivo che al mio interno qualcosa si era rotto, come se le costole si fossero spezzate e qualcosa volesse venir fuori. Da quando sono confinato qui ho spesso smetito che la mia casa è diventata una manifestazione fisica della caverna di Platone, e che io sono l’uomo che la abita. La mia mente rimbalza sulle pareti e sui soffitti anche se il mio corpo non riesce a farlo. Mi sentivo un po’ claustrofobico e avrei voluto uscire e invece ho aperto la porta e ho respirato profondamente. Fuori faceva freddo, sono rimasto lì sulla soglia e per un po’ ho rabbrividito.
Poi, senza concedermi il tempo sufficiente per meditare su ciò che era accaduto, sono tornato dentro, ho preso il telefono e ho fatto il numero di Charlene, che sapevo a memoria.
Ho aspettato di perdere ogni sensibilità. Non avevo nemmeno sotto mano il dialogo che avevo scritto nel caso avesse risposto. Il telefono è squillato cinque volte. E poi, per la prima volta, ha risposto la segreteria, e per la prima volta ho sentito la voce del ragazzo, più acuto di come me l’aspettavo, più giovane della fotografia.
Qui casa Keller, ha detto la voce. Ora non possiamo rispondere. Sapete cosa fare.
Ho aspettato il bip e poi ho riattaccato.
Io non lo sapevo, cosa fare.


Trama

La vita di Arthur Opp, ex professore di Letteratura, è disegnata dai confini del suo corpo. Incapace di governare la fame di cibo, di amore, di rispetto, Arthur non esce più dalla sua casa di Brooklyn. L’unica persona che gli sta a cuore è Charlene, una ex allieva con cui ha mantenuto per anni una corrispondenza tenera e profonda, ma che da qualche tempo non sente più. Finché un giorno Charlene lo chiama per chiedergli di aiutare negli studi il figlio Kel, giovane promessa del baseball. Arthur prova a contattare il ragazzo senza riuscirci: Kel è in crisi, ha grandi aspirazioni ma poche risorse, e non tollera di vedere sua madre consumarsi nell’alcol e nella depressione. Poco alla volta, attraverso piccoli gesti e umanissime coincidenze, l’amore di Charlene avvicinerà Kel e Arthur, liberandoli dal peso del proprio dolore, e darà loro la possibilità di mostrarsi agli altri senza più disperazione né vergogna. Con una scrittura limpida e magistrale, Liz Moore parla dei vuoti d’amore e di felicità che la vita può scavare nei corpi, vuoti da riempire a ogni costo. E racconta del desiderio di cura e di affetto capace di avvicinare le generazioni, creare famiglie, e scacciare per sempre la solitudine.

Questo libro è per chi legge negli occhi di una persona tutto il suo passato, per chi non può fare a meno di tifare per la dolce Olive di Little Miss Sunshine, per chi trova nel proprio nome un indizio prezioso per conoscersi meglio, e per chi ha vissuto una vita intera seduto in disparte, finché non ha incontrato qualcuno capace di rompere l’incantesimo e aprire la porta del futuro.


Recensione

Arthur Opp ha avuto una vita, un tempo. Ma l’ha perduta. Oggi vive da recluso, in un appartamento polveroso e buio, che racchiude il peso dei ricordi. Quelli dell’infanzia e quelli dell’età adulta, entrambi dolorosi e insopportabili. La sua esistenza è come implosa su se stessa. Arthur si lascia vivere,ma dentro è come se fosse morto. Solo, senza più un lavoro, senza uno scopo se non quello di mangiare. Il cibo riempie a stento i suoi vuoti. Il cibo rapisce ogni suo pensiero e giorno dopo giorno l’ha reso molto grasso. La sua mole rallenta ogni suo gesto. Il suo corpo è un fardello che lo allontana dal mondo esterno. Un guscio impenetrabile, una trapunta fitta e asfissiante verso la quale provare vergogna. Il suo corpo è uno scudo, che attutisce i colpi dei ricordi e la pena verso la sua stessa vita, gettata al vento. Una vita che non sa riprendersi e che lascia consapevolmente fuggire via da sé.

Kel Keller invece è poco più di un ragazzino. Ma la sua breve vita è stata già molto dura. Il padre se n’è andato quando era piccolo e la madre Charlene  è un’alcolista. Kel ha sempre dovuto arrangiarsi. Con i soldi, che non bastano mai e con i piccoli e grandi problemi della sua vita da studente e da sportivo. Kel è una giovane promessa del baseball e lo sport è l’ancora che lo tiene agganciato alla realtà. La sua solitudine e i suoi tentativi di condurre un’esistenza quanto più normale possibile. La speranza  di sfondare nello sport. I primi batticuori. La paura di fallire.

Liz Moore entra senza indugio in queste due vite, dando voce ad Arthur e a Kell. Entra,  con la prepotenza di un ariete ma anche con la delicatezza di un battito d’ali. La sua scrittura è tanto cruda quanto densa di sentimento, pietà, pathos. La sua penna sublime sa destreggiarsi con maestria dentro al disagio di due vite calpestate, oltraggiate dal destino, che non sanno trovare un baricentro. Che faticano ad andare avanti, che cercano un appiglio, una mano.

Il peso è un romanzo fatto di solitudine. E’ il racconto di due vite disabitate, vuote, schiacciate. Un racconto fatto in prima persona, con una prosa che dilania. Che distrugge.

Il peso è metafora di qualcosa che schiaccia e che rende impossibile muoversi, reagire. Ed è anche materia che serve a riempire un vuoto, che diventa abisso e che sembra impossibile da colmare.

I vuoti sempre più presenti nelle nostre vite, che spesso possono riempirsi con un semplice gesto. La fame di amore, che il cibo non può rimpiazzare. La solitudine, che disorienta e fa paura.

La prosa di Liz Moore incanta e devasta al tempo stesso. La sua delicatezza, la sua sensibilità e l’acume millimetrico che impiega nel suo romanzo sono motivo di continua meraviglia, quella stessa meraviglia che ci prende quando qualcuno ci tende la mano per non farci cadere, per accompagnarci in un cammino impervio che sembra impossibile da affrontare.

Un romanzo bellissimo, che si insinua  nella carne. Un romanzo che ci trova impreparati, scoperti e nudi nell’affrontare le nostre paure. Un romanzo coraggioso. Crudele. Ma anche pieno di speranza, di incanto, di meraviglia. Un romanzo sulla forza dell’amore, che spazza via ogni tempesta. Che riporta la quiete. Balsamo per ogni ferita. Luce che squarcia le tenebre. Speranza, guarigione. Vita.


L’autrice

Liz Moore è una scrittrice e musicista americana, e insegna Scrittura creativa alla Temple University di Philadelphia. Il suo romanzo Il peso (Neri Pozza 2012) è stato selezionato per l’International IMPAC Dublin Literary Award. Dopo aver vinto il Rome Prize nel 2014, l’autrice ha trascorso un anno all’American Academy di Roma, dove ha completato la stesura del romanzo Il mondo invisibile (NNE 2021).


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Traduzione: Ada Arduini
  • Genere: narrativa
  • Pagine: 363

QUALCOSA NELLA NEBBIA di Roberto Camurri

E lì, davanti a un mare sconosciuto e lontano, tenendo tra le braccia una versione irreale di me, sono dentro ai miei racconti. (…).
Mi sento travolto, e tutto trema attorno a me. Trema il mare e trema il canale, e la città e i suoi tetti, tremano le nuvole sopra la mia testa, i profumi degli alberi, dell’erba, della rugiada nelle albe invernali, del sole e dei fiori nell’afa delle estati.
Tremano il profumo e il candore della neve.
 

Trama

Uno scrittore sceglie di ambientare i suoi romanzi a Fabbrico, un paese che non ha mai visto ma che lo attrae inspiegabilmente. È un uomo insoddisfatto e arrabbiato, odia la sua famiglia e il suo lavoro. Il suo primo libro ha avuto successo, e ora sta scrivendo nuove storie, diverse, ambientate in una Fabbrico spettrale in cui si muovono tre personaggi: Alice, che ha avuto una grottesca carriera in tv e ha scelto di tornare a vivere in paese; Giuseppe, da sempre innamorato di Alice anche se può averla solo in un perverso gioco sessuale; e Andrea detto Jack, che da bambino assiste all’arrivo di un’inquietante famiglia nella casa con cinque comignoli vicina alla sua, diventando testimone di una terribile tragedia. Invitato a un festival letterario in Olanda, lo scrittore comincia a confondere realtà e finzione, e grazie a una donna misteriosa scopre un passato che non sapeva di avere.

Amore e amicizia, fiducia e tradimento, vita e morte: Roberto Camurri torna ai temi di A misura d’uomo in un romanzo intimo e intenso, radicalmente sincero. E con una lingua suadente e musicale, e delicati tocchi sovrannaturali, svela la natura ammaliante del passato, che ci attrae con il suo incessante richiamo ma ha il potere di liberarci dalle nostre più recondite paure.


Recensione

Ci sono luoghi che finiscono per diventare una trappola per chi li ha immaginati. Luoghi del cuore, della mente. E luoghi geografici veri e propri, popolati di persone, di storie, di destini che si attorcigliano al collo togliendoci  il fiato.

Fabbrico è uno di questi. Esiste davvero, ma Roberto Camurri lo ha destrutturato, reinventato. Lo ha cancellato per farlo risorgere in un mondo di fantasia.

Fabbrico è come un imbuto che risucchia vita e vitalità di uno scrittore in crisi, che risponde con l’odio agli interrogativi che sente gravare sulle sue spalle. Nel suo matrimonio aleggia indifferenza e rabbia e un solo ricordo, di quando dopo l’amore fatto in auto con la moglie, una nebbia repentina e improvvisa li avvolge fino a svelare Fabbrico, con le sue case e, una su tutte, una casa con cinque comignoli.

Fabbrico si materializza davanti a lui ed è il paese che lui stesso racconta nei suoi romanzi. A Fabbrico c’è Alice, c’è Giuseppe e c’è Andrea, detto Jack. Sono i personaggi che lo scrittore ha creato, che ha partorito con la sua penna, che vivono grazie a lui ma che ad un certo punto è come se si riappropriassero delle proprie vite, per viverle in maniera autonoma. Si staccano dalla volontà del loro creatore, e gli vanno incontro con lo scopo di confonderlo. La dimensione onirica è molto forte in questo romanzo, così come la confusione mai risolta tra immaginario e reale. E c’è anche autoinganno, quell’istinto di auto protezione che colora e confonde una realtà che non possiamo accettare.

Lo scrittore scrive per capire, per far dissolvere quella nebbia che ormai l’ha avvolto. Scrive per delineare un ricordo che scatta quando vede davanti a sé i cinque comignoli di una casa.

Un grido di aiuto e il desiderio di velarsi gli occhi per non vedere. Lo scrittore ha bisogno dei suoi personaggi, e loro di lui. Fabbrico è un luogo immaginato ma i suoi contorni sono sempre più netti e più spaventosi.

Fabbrico è un magnete che gira impazzito come l’ago in una bussola. E che si ferma davanti a Alice, a Jack, a Giuseppe, alla loro voglia di dimenticare, di rifare, di distruggere e di ricostruire. Lo scrittore non può che guardarli vivere, perché dopo che ha dato loro la vita ne ha anche perso il controllo. E ne subisce il giudizio.

In un vortice di confusione, dove memoria e sensazione si intrecciano e si sovrappongono, le recondite impressioni di una vita lontanissima tornano a galla. E riaffiorano consapevolezze che erano state celate. E i personaggi tornano ad essere lievi ectoplasmi che fluttuano dentro ad una coscienza che recalcitra dentro a sensazioni attutite, che spaventano e fanno male. E Fabbrico torna ad esistere.


L’autore

Roberto Camurri è nato nel 1982, undici giorni dopo la finale dei Mondiali a Madrid. Vive a Parma ma è di Fabbrico, un paese triste e magnifico che esiste davvero. È sposato con Francesca e hanno una figlia. Lavora con i matti e crede ci sia un motivo, ma non vuole sapere quale. Il suo libro d’esordio, A misura d’uomo (NNE 2018), ha vinto il Premio Pop e il Premio Procida ed è stato tradotto in Olanda, Spagna e Catalogna. Il suo secondo romanzo, Il nome della madre, è stato tradotto in Olanda e Germania. Qualcosa nella nebbia è il suo terzo romanzo.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Collana: La Stagione 2022
  • Genere: narrativa
  • Pagine: 172

CHE RAZZA DI LIBRO! di Jason Mott

Deglutì, cercando di trattenere le lacrime e di trovare le parole per dire a suo figlio: “Lo dimenticherai”.
Cercò le parole per dire: “Questo è solo il primo di tanti ragazzini che incontrerai nel corso della tua vita. Si accumuleranno l’uno sull’altro, settimana dopo settimana. Proverai a ricordarli ma alla fine la tua mente sarà troppo piena, e loro traboccheranno e te li lascerai alle spalle. E poi un giorno sarai grande e ti renderai conto di aver dimenticato il suo nome, il nome del primo ragazzino nero morto che avevi giurato di non dimenticare, e ti odierai. Odierai la tua memoria. Odierai il mondo. Odierai di non essere riuscito a fermare il flusso di cadaveri che si sono accumulati nella tua mente. Cercherai di rimediare, non ci riuscirai e affogherai nella rabbia. Te la prenderai con te stesso per non aver trovato una soluzione e affogherai nella tristezza. E lo farai e lo rifarai ancora, per anni, e un giorno avrai un figlio e lo vedrai sulla tua stessa strada e vorrai dirgli qualcosa per rimediare, qualcosa che lo salvi da tutto questo… e non saprai cosa dire”.
William voleva dire a Nerofumo tutte le parole giuste, ma non le aveva in mente. In mente aveva soltanto l’immagine di suo figlio disteso sul cemento, morto, proprio come tutti i ragazzini che andavano e venivano in televisione.

Trama

Uno scrittore americano ha appena pubblicato un libro di successo: durante il tour promozionale, fra interviste, avventure amorose e sbronze colossali, incontra un ragazzino dalla pelle nerissima che da quel momento in poi lo segue come un’ombra. A ogni tappa il Ragazzino racconta qualcosa di sé, affermando che i suoi genitori gli hanno insegnato a diventare invisibile, per proteggersi dalla brutalità del mondo. E in effetti, lo scrittore è l’unico in grado di vederlo, ma poiché è affetto da una strana malattia che gli impedisce di distinguere la realtà dal sogno è certo che si tratti di una semplice allucinazione. Ben presto, però, le sue visioni hanno il sopravvento, mettendolo di fronte a un passato che da sempre cerca di sfuggire, una verità che preme per liberarsi e ritrovare corpo e voce.

Commovente e feroce, esilarante e tragico, Che razza di libro! è la storia di un bambino che vede nell’invisibilità una promessa di vita, e di un uomo che vorrebbe uscire dalla propria pelle, per nascondersi dalla violenza. Con una lingua brillante e arguta, Jason Mott mette a nudo discriminazione e pregiudizio, mostrandoci la possibilità di un mondo dove il colore non è più un confine.


Recensione

Dire cosa sia questo libro non è cosa facile. Un racconto che parte a due voci. Un dialogo che finisce per diventare monologo. E un titolo che sembra ironico e ammiccante ma che sottintende esattamente ciò che recita. Razza. Non come “tipologia”.  Non come quell’interazione che sta ad indicare che il libro in questione sia un’eccezione, qualcosa fuori dalle righe. No. Razza indica razza. Un gruppo di individui di una specie contraddistinti da comuni caratteri esteriori ed ereditari.

Si, Che razza di libro parla di razzismo. Una parola ormai antiquata, anacronistica, fuori dal tempo. Quel razzismo, si, il razzismo padre di tutti i razzismi, quello che indica la presunta superiorità dei bianchi sui neri.

 Eppure il razzismo sopravvive anche in questa epoca. Di razzismo si muore, e non solo metaforicamente. Una condizione che sta appiccicata addosso indelebile. E ineluttabile, come il sangue che scorre nelle vene.

Jason Mott, autore americano che con questo libro ha vinto in National Book Award 2021, parla di razzismo senza cadere nel luogo comune. Senza rivangare la storia, senza puntare il dito, senza eccessi, senza sensazionalismo, senza retorica. Ma utilizzando un registro ibrido, che include ironia, sarcasmo, dramma e pathos. Si sorride, si piange, ci viene la pelle d’oca leggendo questo libro. E soprattutto non ci si annoia mai, perché ci si ritrova presi in ostaggio da una scrittura leggiadra e tagliente, evocativa e brillante. Immersi in una trama distopica, che ci porta a spasso tra le pagine senza che si riesca a capire dove si andrà a parare.

Verità e fiction, realtà e immaginario si mescolano e si confondono, creando un collage di tessuto mélange, dove la dimensione onirica va a braccetto con i fatti e crea il substrato ideale per confondere e irretire il lettore.

Veniamo alla trama. Il romanzo parla la voce di uno scrittore e quella di un bambino. Il bambino ha sviluppato il dono dell’invisibilità e può essere visto solo dallo scrittore, che è in qualche modo schiacciato dalla sua fervida immaginazione, quasi una malattia che confonde i confini della realtà con quelli del suo immaginario. L’invisibilità  serve al bambino per non essere visto da chi vorrebbe deriderlo, offenderlo, ferirlo, discriminarlo. In alcuni casi persico ucciderlo, per il solo fatto che è di colore. Serve per non fargli fare la fine di suo padre, morto ammazzato da un poliziotto davanti a casa. Eppure il bambino vuole essere visto dallo scrittore. Vuole esistere. Vuole capire perché non può farsi vedere. Vuole capire da cosa deve essere protetto. Il bambino incarna il fardello di essere nero. Una condizione che innesca l’inconciliabile desiderio di sparire e di esistere. Il bambino è chiunque viva in una condizione discriminante. E’ lo scrittore stesso che ha bisogno di ricordare chi è realmente. Una persona che confonde la realtà e che sembra non ricordare il suo passato.

Per tutto il romanzo aleggia nell’aria la notizia della morte di un bambino per mano della polizia. E’ uno dei tanti morti innocenti o è il bambino non visto? E il padre di famiglia ucciso sul prato? E’  il padre del bambino o dello scrittore? L’incertezza è il filo conduttore di questo romanzo, che è addirittura un romanzo nel romanzo, uno specchio autobiografico, probabilmente. E poi l’ultima cruciale domanda: come si può proteggere chi amiamo da tutto questo?

Dietro questi espedienti, che tengono impegnata la mente del lettore, si nascondono ben altri messaggi. E sono questi i messaggi importanti, quelli che ci fanno riflettere sul destino di un popolo schiacciato da tutti i macigni del mondo. Che poi si sorrida, leggendo, è tutta un’altra storia. E l’abilità di Jason Mott sta proprio in questo folle equilibrio tra dramma e ironia, quasi a suggerire che non occorre vestirci a lutto per ricordare l’amarezza della storia dei neri afro-americani. E che la cosa importante è proprio ricordare e consentire ad un popolo vessato di poter piangere la sua sorte disumana senza cadere nella palude insidiosa della commiserazione.

Che dire, Che razza di libro è una genialata. E’ la solidale carezza che diamo al bambino, che si affaccia alla vita senza sapere quanto questa possa essere crudele. E’ l’ironico candore dello scrittore, che preferisce dimenticare i suoi trascorsi piuttosto che indugiare nel rimpianto e nel rancore. E’ l’uno e l’altro. Ma anche l’uno e l’altro. Tutti e due. Insieme. Che si danno la mano. A sostenersi l’un l’altro. Perché il ricordo fa così troppo male, che è meglio truccarlo un po’.


L’autore

Jason Mott è uno scrittore americano, autore di romanzi e poesie. Che razza di libro! è stato selezionato in diversi premi, tra cui il Carnegie Medals for Excellence in Fiction, l’Aspen Words Literary Prize, il Joyce Carol Oates Prize. Ha vinto il Sir Walter Raleigh Prize for Fiction e il National Book Award for Fiction 2021.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Collana: La Stagione
  • Traduzione: Valentina Daniele
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 310

L’ALBERO DELLA NOSTRA VITA di Joyce Maynard

Era quella la parte terribile dell’essere genitori. Più amavi, più avevi da perdere. Come se fosse il tuo cuore quello che il lanciatore stava scagliando verso il piatto di casa, e che si librava a mezz’aria, pronto per essere sfracellato da un colpo di mazza. Dopo aver avuto un figlio non eri mai più al sicuro.

Trama

Eleanor è una donna giovane e indipendente, fa l’illustratrice di libri per bambini e vive da sola in una bellissima casa di campagna nel New Hampshire. Quando conosce Cam, a fine anni Settanta, è subito amore e sesso e famiglia, e in poco tempo nascono Alison, Ursula e Toby. Cam è un bravo padre ma non sa trovarsi un lavoro; e un giorno perde di vista il piccolo Toby, che ha un incidente dalle conseguenze irreparabili. Eleanor non riesce a perdonare il marito, e innalza un muro di rancori che diventa insuperabile quando scopre un tradimento. Così decide di andarsene, lasciando a Cam e ai figli la casa e la normalità in cui hanno sempre vissuto. Il suo silenzio avrà conseguenze sul rapporto con i ragazzi, che entrano in conflitto con lei e lentamente la abbandonano. Ma grazie alla sua tenacia, Eleanor saprà ricostruire se stessa e riavvicinare le persone che ama.

L’albero della nostra vita è la storia di una donna e di una coppia, sullo sfondo di una Storia che si riflette implacabile nella vita di ciascuno: le lotte sociali, l’avvento della tecnologia, la tragedia del Challenger, un filo rosso che lega tutti in un’unica, grande esperienza umana. Con saggezza e compassione, Joyce Maynard ci mostra il potere liberatorio del perdono, l’unica forza al mondo che può rivelarci il significato più puro e creativo dell’amore.

Questo libro è per chi non vede l’ora di partire per un epico viaggio alla ricerca della casa dei sogni, per chi ancora conosce a memoria la coreografia del video di Thriller, per chi da piccolo riponeva ogni speranza negli astronauti che conquistavano lo spazio, e per chi immagina la propria vita come una barchetta di legno in balìa della corrente, che sussulta e sobbalza fino a raggiungere il mare aperto.


Recensione

Apro le pagine e entro prepotentemente nella vita di Eleonor. E di lei conosco tutto. La sua storia, i suoi segreti. Le cose che hanno lasciato un graffio nel suo intimo. I suoi desideri e la realtà delle sue giornate. Il suo progetto di vita e il sisma che distrugge da dentro ciò che si è costruita. L’amore senza argine per i figli, la passione screziata di disappunto verso Cam. I muri di una casa entro i quali scorre la linfa della sua vita. Le pareti, che rimbombano delle risate di tre bambini. La campagna, che non serba angoli nascosti, né rancori, né segreti.

La gioia di vivere una vita piena. I pensieri, che a volte scappano via dalla testa e si rifugiano in fondo al cuore e lì sedimentano. E covano delusione. Ma germogliano nella calda carezza del perdono.

Eleonor rappresenta un pezzetto di ognuno di noi: l’amante appassionata, la donna che si realizza con la sua arte, la madre presente e affascinata dai propri figli, che sono ciò che di più vero e bello possiede. La donna spezzata e la donna rinata. La donna che ama e la donna che si fa da parte. Quella che si allontana e che ritorna, con il perdono tra le mani. Una donna e la vita che dà e toglie. Un fiume che scorre inesorabile, sopra ad ogni sasso, lambendo gli argini e trascinando con sé ogni cosa. Un fiume che cancella i ricordi che fanno male e che restituisce la vita al terreno arido e assetato. Un fiume a cui ogni donna affida i suoi figli, in un viaggio insidioso e pieno di meraviglia, che dovranno affrontare da soli, come gli omini di sughero che Alison, Ursula e Toby affidavano ogni anno alla corrente.

L’albero della nostra vita è un viaggio. Scritto in terza persona da una penna lucida e profonda, che non conosce reticenze e che non utilizza alcun attenuante. Una penna che conosce la dolcezza e le asperità della vita, che tratteggia senza alcuna fatica, senza il timore di dissacrare né di eccedere. Che utilizza le corde profonde del sentire per trasferire al lettore la meraviglia di vivere a pieno la propria storia. Una vita che è la Vita. Quella che ognuno di noi vive ogni giorno. Che è bella, ma anche crudele. Avara e prodiga. Meravigliosa e complicata. Che ci mette alla prova e aspetta la nostra risposta, che apre scenari nuovi e inaspettati, ai quali adattarci e dai quali cercare di estrapolare gioia e pienezza.

Il racconto abbraccia oltre cinquant’anni di vita e si immerge negli avvenimenti che hanno segnato la nostra storia recente. La storia di Eleonor si intreccia alla storia della sua casa, una fattoria che si riempie della vita dei suoi abitanti. Eleonor, che vi giunge per caso, quasi a nascondervisi, per curare le sue ferite. Poi arriva Cam, affascinante e pieno di passione.  E i bambini, a poca distanza l’uno dall’altro. Sono adorabili contenitori di dolcezza e meraviglia. Corpicini caldi, manine appiccicose, favole e giochi da inventare e vita che si riempie fino a traboccare, a lasciarti senza fiato. La felicità fa quasi male e fa paura, perché è perfetta. La famiglia, che Eleonor ha sempre desiderato. Quella che lei non ha mai avuto.

La maternità accoglie Eleonor in un vortice di sentimenti che non lasciano spazio ad altro. La vita è così piena ed estenuante che trascina via con sé ogni altro spazio e qualsiasi altro pensiero. E l’amore per Cam sbiadisce. Il legame si spezza. E Eleonor lascia la fattoria, per non assistere alla capitolazione di un sogno.

E inizia un processo inesorabile di corrosione. I legami si sfilacciano e poi si spezzano. Il rancore si diffonde a macchia d’olio e la solitudine torna ad abitare le giornate di Eleonor.

Ma il fiume continua a scorrere, incurante di tutto. E Eleonor torna a galleggiare. E a nuotare. E a navigare, a favore di corrente. Un omino di sughero caparbio e inaffondabile. E tornerà a casa, a rinsaldare i legami. A costruirne di nuovi. A sostenere chi vacilla. A chiudere il cerchio.

Una vita da vivere e che viviamo, spesso inconsapevoli, di farlo, ogni giorno. Scegliendo, ma anche subendo i capricci del destino. Partiamo con un bagaglio a sorpresa e utilizziamo il suo contenuto come meglio sappiamo. E viaggiamo senza conoscere la meta. Cercando una terra promessa e facendo salire altri passeggeri, che ci accompagneranno. Per un minuto, un anno o per sempre. Il viaggio sarà bello se c’è il sole. Ma arriverà la pioggia e ci bagnerà. E il vento, poi, ci asciugherà. Come Eleonor si è lasciata asciugare dai venti secchi che accarezzavano i muri stinti della fattoria. Come Eleonor che ha costruito e ha demolito. Che è partita e poi è tornata.

“L’albero della nostra vita” è un inno alla Vita. Una canzone stonata che suona una musica che ci piace. La fotografia di ciò che siamo. La meraviglia della vita, che è sorpresa, ebrezza, passione. Delusione, dolore e caduta. E rinascita, respiro, luce.


L’autrice

Joyce Maynard è una scrittrice e sceneggiatrice americana, giornalista per il New York Times, Vogue, O, The Oprah Magazine, e The New York Times Magazine. Ha pubblicato diciassette libri, tra cui At Home in the World, che racconta la sua relazione da giovanissima con J.D. Salinger. Il suo romanzo To Die For è diventato il celebre film Da morire, così come Labor Day, di prossima pubblicazione per NNE, è stato portato sul grande schermo da Jason Reitman.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Traduzione: Silvia Castoldi
  • Collana: La Stagione
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 494

L’UOMO CHE AVEVA VISTO TUTTO di Deborah Levy

Mi ero trovato in tasca una matita per occhi azzurra. Si chiamava Spuma d’oceano, e me l’aveva regalata Jennifer per il mio compleanno. Di solito andavo in biblioteca in giacca e cravatta, cercando di far intendere che ero uno studioso serio e del tutto in accordo con un regime ideologicamente sorvegliato da vecchi abiti formali. Si, il regime e io potevano sederci sullo stesso divano e respirare in sincronia, sereni e affettuosi, a goderci un silenzio cordiale. Cominciavo a essere sempre più simile a mio padre, quindi mi passai un po’ di Spuma d’oceano sotto gli occhi e partii per un’altra giornata a studiare la resistenza culturale al nazismo nella Germania degli anni Trenta. Spuma d’oceano si rivelò un vero e proprio maremoto.

Trama

È il 1988 quando il giovane Saul Adler viene investito da un’auto a Londra sulle strisce pedonali di Abbey Road, celebri per l’album dei Beatles. Si riprende, ma il giorno dopo la sua fidanzata Jennifer Moreau, una promettente fotografa che l’ha scelto come musa, lo lascia senza motivo. Depresso, Saul si trasferisce a Berlino Est per portare avanti i suoi studi sull’Europa orientale; e da quel momento gli eventi sembrano legarsi e slegarsi in un vortice di coincidenze e discordanze. La memoria di Saul è sempre più inaffidabile, lui pare conoscere fatti non ancora accaduti ma tradisce i suoi più cari amici, Walter e Luna, che vengono arrestati dalla Stasi. Quando però, anni dopo, rimane vittima dello stesso incidente su Abbey Road, Saul intraprende un viaggio intimo alla ricerca di se stesso, per ricomporre la realtà spezzata in cui è immerso.

Magico e struggente, L’uomo che aveva visto tutto è un romanzo sullo spazio sfocato tra verità e ricordi, un luogo mutevole in cui passato e presente convivono. Come in un’immagine a lunga esposizione, Deborah Levy fotografa squarci di tempo interiore, dove la nostra identità prende forma, e illumina il desiderio oscuro di vivere infinite vite, mille amori, mille esperienze.


Recensione

Una vita intera racchiusa in poco più di 200 pagine. Non una linea retta, ma tante macchie psichedeliche, alcune sfuocate, altre a tinte forti. Che si sovrappongono, che fluttuano distanti, si avvicinano, si allontanano, cozzando tra loro.

Debora Levy scrive un romanzo onirico e straniante,  utilizzando la prima persona singolare per disegnare l’esistenza di Saul Adler, un uomo avvenente, sensibile, affascinante quanto inquieto. Vittima inconsapevole di svariate fascinazioni. Deluso dalla memoria e confuso dall’accavallarsi degli eventi della sua vita, che a tratti paiono incomprensibili, preda di un capriccio o, meglio ancora, di un destino beffardo e crudele.

La storia di Adler sfugge non solo alla memoria di se stesso, ma anche alla prevedibilità degli eventi, che si susseguono senza alcuna continuità, in modo apparentemente casuale.

Abbey Road, a Londra, è il luogo in cui tutto inizia e finisce. Un luogo iconico, scelto dai Beatles per uno scatto che è divenuto famoso e che fa da sfondo anche ad una foto che vede Saul come soggetto principale. Una foto che lo inseguirà nella Germania Est, nei giorni che precederanno la caduta del Muro, finendo nelle mani di un’amante opportunista, per poi tornare a Londra, appesa al muro della mostra fotografica di Jennifer, l’amata Jennifer. Colei che scatta la foto, in quel giorno in cui tutto inizia.

La Germania Est sembra essere per Saul un luogo di perdizione. Lì si consuma la sua avventura con Walter, lì scenderà a patti con l’oppressione del regime, che spinge le persone a goffi sotterfugi e a melodrammatici stratagemmi per vivere una vita degna di essere vissuta. Sempre lì assaggerà il sapore della prigionia, fisica e mentale ed elaborerà il rancore verso il padre e il fratello.

Tornato a Londra, sulle strisce bianche e nere di Abbey Road, il passato di Saul tornerà a tormentarlo. Gli anni sembrano essere passati in un attimo, ma il vuoto della memoria e l’occhieggiare di ricordi fallaci e ruffiani, portano Saul a ripensare la propria vita, a ricostruirla, prendendo congedo da chi gli ha nuociuto e chiedendo perdono a chi si è lasciato travolgere dal suo egocentrismo.

L’uomo che aveva visto tutto è la parabola di una vita che passa inosservata, senza mordente, senza il coraggio necessario a guardare le cose per come sono davvero. Così come Saul da giovane  non metabolizza l’esperienza nella Germania Est, anche il Saul maturo non riesce a penetrare il nucleo della sua esistenza, lasciando che gli amori della sua vita rimangano relegati al ruolo di semplici comparse. Non è un caso se Saul, affacciandosi sulle strisce di Abbey Road finisca sempre per non attraversarle. L’incompiutezza di quella traversata, così come l’incompiutezza della sua intera esistenza sono in fondo un destino comprensibile, per Saul come per la maggior parte di noi, assolti di default dalla nostra codardia, che pare l’unico modo plausibile per vivere una vita complicata e piena di insidie.


L’autrice

Deborah Levy (1959) è tra le maggiori scrittrici inglesi. Nata in Sudafrica, è autrice di romanzi come A nuoto verso casa (Garzanti 2014), finalista al Man Booker Prize, e Come l’acqua che spezza la polvere (Garzanti 2018). L’uomo che aveva visto tutto è stato selezionato per il Man Booker Prize 2020 ed è entrato nella short list del Goldsmiths Prize 2019. NNE pubblicherà anche il suo prossimo romanzo.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Genere: distopico
  • Traduzione: Gioia Guerzoni
  • Pagine: 240

LA VOCE DENTRO di Frances Leviston

Più lo lavori, più il feltro si restringe. I bordi diventano ondulati, irregolari; si increspa, e gli avvallamenti si riempiono di schiuma. Pensi che sia rovinato, e a volte è così; ma altre volte si sta solo avvicinando alla sua nuova forma. Versi altra acqua per sciacquare la schiuma e poi, quand’era relativamente pulito, lo metti ad asciugare su un grande telaio, in inglese “tenter”, da cui deriva l’espressione “to be on tenterhooks”, che significa “essere sulle spine”.

Trama

Le dieci protagoniste di questo romanzo in quadri si chiamano tutte Claire. Hanno età e vite diverse, ma le loro storie costruiscono il ritratto di un’unica donna riflessa in uno specchio frantumato. Claire è una presentatrice televisiva che manda all’aria la sua prima intervista importante; Claire assume un’assistente robot di nome Patience perché si prenda cura della madre anziana al posto suo, ma poi viene divorata dalla gelosia; Claire è una danzata assente e distaccata, che affida a un diario le sue insospettabili avventure sessuali; e Claire è una figlia in rotta con la madre, che decide di affrontare per l’ultima volta affidando il suo grido di rabbia a un inquietante burattino.

Con una lingua elegante e musicale, e pennellate che vanno dal grottesco all’horror, Frances Leviston racconta il momento, doloroso e liberatorio, in cui una donna decide di deviare il corso della propria vita, lasciandosi alle spalle quella voce interiore che nasce dal rapporto col materno. Come moderne Cassandre, le sue protagoniste si ritrovano in un mondo che non ha i tratti familiari del passato, ma non per questo rinunciano a seguire la natura profetica delle loro fantasie, infiniti corridoi da percorrere senza paura di trasgredire le regole e s dare l’autorità.

Questo libro è per chi coltiva lamponi in un orto d’estate, per chi ha viaggiato in tutta Europa tra le pagine di Tutto quello che è un uomo, per chi di fronte a un pianoforte chiuso si copre le orecchie per proteg­gersi dal silenzio, e per chi ha dipinto una cifra in più sul quadrante dell’orologio, per vivere in un’ora inventata dove non invecchiare mai.


Recensione

Portano lo stesso nome. Sono donne che vivono tutte un dissidio interiore, che transitano in un’esistenza che si contorce su se stessa, a stravolgere, a fraintendere, a supporre qualcosa che si rivela trascendente, sconosciuto, irreale, fastidioso.

Dieci vite, dieci storie di lotta, contro nemici spesso incorporei, che stanno dentro, al riparo, nascosti bene dalle vesti esterne, dai pensieri altrui, dalle convenzioni.

Claire, questo è il nome che ricorre. Luce, faro, trasparenza, in netto contrasto con il buio che incombe su ognuna di loro. Ogni Claire è stretta in un dolore, che non riesce a neutralizzare con la sola forza di volontà.

L’umore che prevale in questa raccolta è la rassegnazione, la resa. Ed anche la sconfitta. Una sconfitta che non porta dolore, ma solo la constatazione di un destino avverso, proteso verso il fallimento come un male inevitabile.

Ogni Claire ha una storia familiare insolita, che la porta ad incrinare l’idea di coesione, di solidarietà che il concetto di nucleo familiare pretende. Ogni Claire ha in testa un’idea felice, un intento virtuoso, che tuttavia, altrettanto puntualmente naufraga e implode.

Non conta l’età, il ceto, la provenienza, la situazione. Claire, quale che sia la donna di uno dei dieci racconti, combatte con un’ombra, uno spauracchio. E inevitabilmente perde.

Frances Leviston ha grande dimestichezza con le parole. La sua penna è svelta, arguta, ammiccante. Tesse in scioltezza lessici che allungano le loro braccia verso l’estasi e il tripudio della poesia, affrancandosi dalla schiavitù della metrica. Il senso di asfissia è latente, ma ammicca dalla prosa densa di significati sottili e dalle atmosfere stantie e opprimenti di vite disilluse, che si rassegnano a rimanere banali e attanagliate da un senso di sconfitta.

Così è la Claire che manda a monte un sogno, o la Claire che si ritrova a competere con un robot. Quella che si scontra con l’inconsistenza e le insidie di un personaggio immaginario o quella che va incontro a un ricordo disturbante e mai dimenticato. Claire ha spesso un rapporto conflittuale con sua madre. Claire soffre per l’incapacità di trattenere un amore o di provocarlo.

I quadri che disegna la Leviston sono acquarelli delicati ma anche dipinti a tinte forti, aggressivi e sfrontati. Dipinti in cui rispecchiarsi, in cui lenire i nostri malumori e le nostre delusioni. Un romanzo che permette al lettore di praticare la consolazione di un “mal comune, mezzo gaudio”. Che lo lambisce con l’idea che l’infelicità è democratica e distribuita tra gli abitanti della terra con una sbalorditiva perequazione.

Un’incursione nel disturbante mondo privato degli altri, che a volte può sembrare un prato sempre verde, ma che spesso è una brughiera battuta dal vento, che spettina i capelli e lascia il capo scoperto, nudo.


L’autrice

Frances Leviston è una scrittrice e poetessa inglese, e insegna alla University of Manchester. Le sue raccolte di poesie, Public Dream e Disinformation, sono state candidate al T.S. Eliot Prize, al Forward Prize for Best First Collection, al Jerwood ­Aldeburgh First Collection Prize e al Dylan Thomas Prize. La voce dentro è stato inserito dal Guardian tra i migliori libri del 2020. NNE pubblicherà anche il suo prossimo romanzo.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Collana: La Stagione
  • Traduzione: Ada Arduini
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 249

ATTI DI SOTTOMISSIONE di Megan Nolan

La sofferenza delle donne è dozzinale ed è usata in modo dozzinale da donne disoneste in cerca soltanto di attenzioni – e fra tutti i nostri peccati capitali, cercare attenzioni di sicuro dev’essere uno dei più gravi.

Trama

Quando lei, giovane e travolta dalla Dublino notturna, incontra lui, Ciaran, bello e risoluto, succede qualcosa di semplice e straordinario: l’attrazione rompe gli argini, si mescola alle fragilità e alle paure, diventa il significato stesso del vivere. Nasce così una relazione che per la protagonista è un alternarsi di estasi e sofferenza, di gelosia sfrenata unita a un piacere così intenso e bruciante da creare dipendenza: lei vuole annullarsi nel corpo di lui, dissolversi nei desideri fino a non lasciare più spazio alla propria identità. Mentre Ciaran, uomo emotivamente incapace e ferito, non trattiene i propri atteggiamenti malsani e crudeli. Fino all’epilogo, distruttivo e liberatorio, che apre la strada a una fuga e una rinascita.

Megan Nolan racconta una storia di anti-amore, interrogandosi su cosa significa vivere in funzione del desiderio altrui, della volontà di essere amate a tutti i costi, rinunciando a ogni filtro che non sia lo sguardo dell’altro. Attraverso un serrato monologo interiore, sincero come il cristallo, Atti di sottomissione parla della seduzione del nulla, che può piegare il senso stesso dell’amore rovesciando certezze, moralismi, rivendicazioni e cliché, in un’estenuante battaglia interiore per la conquista delle proprie emozioni.

Questo libro è per chi sogna un amore che renda magica la pioggia, per chi galleggiando in mare aperto perde peso ma trova consistenza, per chi non sa godersi il primo bicchiere di vino perché pensa già al secondo, e per chi cerca nel corpo dell’altro un luogo di preghiera, dove dimenticare la propria carne viva e dissolversi nella bellezza assoluta.


Recensione

Una storia scritta in prima persona che rompe gli argini del buon senso e della decenza. Un romanzo che scuote, scandalizza e rappresenta l’estasi e la sofferenza che deriva dall’amare una persona a cui inconsapevolmente hai consegnato le chiavi della tua felicità. Tutto riponi in quell’amore che nasce innocente e denso di aspettative. Una scatola magica, un vaso di Pandora da cui irrompe un coacervo di emozioni, di gesti, di brividi e di godimento fisico e mentale. La tua vita si indirizza tutta verso quell’anfratto di gioia pura, dove ogni sensazione diventa estrema e pericolosa. Perché è pericoloso consegnarsi ad un altro e lasciare che sia il depositario del significato di una intera esistenza.

La storia di lei è una storia già scritta, incisa a fuoco sulla pelle di molte donne, ansiose di piacere, di essere approvate, tanto da concedersi con troppa facilità. La vertigine di essere accettate, di essere belle, apprezzate, disinibite e intelligenti  ti fa fare cose che non vorresti fare, ti fa cedere, abbassare il capo. E questo cedimento ti svilisce, ti degrada. Ma non puoi sfuggirgli, quando riponi nell’amore tutta le tue speranze, tutta la tua fede.

Quando lei incontra Ciaran è già provata dalla vita. Ha abbandonato gli studi, conduce una vita precaria, beve troppo e l’alcol è un appiglio scivoloso ma apparentemente affidabile per salvarla dalle sue paure.

Ciaran è la sua salvezza. Ma anche la sua perdizione. Instabile e emotivamente provato, la spingerà sull’orlo del buio e lei potrà solo decidere di annientarsi oppure reagire nell’unico modo che conosce, distruggendosi.

“Atti di sottomissione” è un romanzo coraggioso, sincero, doloroso e catartico. Una prosa asciutta, sfrontata, provocatoria che tuttavia lascia ampio spazio ad una introspezione così chiara da sembrare quasi crudele. Una finestra sul costante delirio di una donna che cerca di difendersi dai morsi di un amore malato e totalizzante, fino a che non riuscirà a distruggerlo e a distruggere se stessa nella necessaria esplosione.

Una storia di dolore, chiusa nelle stanze asfittiche di una femminilità corrotta e sbagliata. La ricerca di un equilibrio che si nasconde nelle pieghe della pelle, dietro ai tagli e alle cicatrici, sotto i vestiti provocanti o sciatti e nella carne che non trova mai la giusta misura, succube di un’altalena che vede nella forma e nell’esteriorità del corpo la nemesi dell’insoddisfazione e dell’infelicità.

Una lettura necessaria, che sfonda le membrane del buon senso e del buon esempio. Una lettura che ci ricorda quanto sia complesso essere donna, dentro alla giungla delle emozioni, delle aspettative e delle buone maniere. La giungla dalle quale si alzano le suggestioni che ti incatenano ad una immagine, ad uno stereotipo. La giungla che sopisce la voce che ti sprona ad alzarti, a credere in te stessa e a costruire la tua vita da sola, senza dipendere dagli altri. Quella voce che ti punisce. Quella voce che ti salva.


Non poteva essere che questo romanzo ad aprire la collana “Le fuggitive”, che accoglie storie di donne che sono in fuga da una vita che vuole incasellarle, soffocarle, imprigionarle dentro a luoghi comuni e a preconcetti. Donne non comuni, che rifiutano la prigione degli stereotipi e il peso enorme delle aspettative degli altri. Donne che vogliono essere se stesse, alla ricerca del luogo esatto in cui poter vivere la loro femminilità, fuori dagli schemi, in libertà.


L’autrice

Megan Nolan (1990) è nata in Irlanda e vive a Londra. I suoi saggi, fiction e articoli sono stati pubblicati su The New York Times, The White Review,The Sunday Times, The Village Voice,The Guardian e nell’antologia Winter Papers. Salutato dalla critica come uno dei migliori esordi del 2021, Atti di sottomissione è il suo primo romanzo.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Collana: Le Fuggitive
  • Traduzione: Tiziana Lo Porto
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 286