PERSONCINE di Maria Messina

“Hai capito, Geniù? Te la senti di fare il tuo dovere come io, e tua madre, e la buon’anima di tuo padre, l’abbiamo sempre fatto?” Gènia fece segno di si con il capo. E con la stessa sottomissione, ascoltò tutti gli avvertimenti e i consigli che le fecero. Si, lo sapeva bene come doveva comportarsi…. Ubbidiente, sicuro…. rispettosa…. Non si sarebbe lagnato nessuno. Poi si mise lo scialletto nuovo e seguì la madre.


Trama

Personcine di Maria Messina è uno spaccato delle realtà più umili dell’Italia rurale di inizio Novecento. Pubblicata nel 1921, questa raccolta di racconti presenta l’infanzia come tema chiave. Bambini e ragazzi vengono ritratti in scene di vita quotidiana, manifestando la tenerezza e l’innocenza della giovinezza come tesori inestimabili in grado di donare significato profondo agli episodi più semplici e genuini. La sensibilità dell’autrice dialoga in maniera non banale con la letteratura per ragazzi del Primo Dopoguerra: Maria Messina affianca i valori tradizionali del patriottismo e del rispetto dell’autorità a preziosi spaccati di ciò che la naturalezza di un bambino può insegnare alla società sua contemporanea. Altro tema ricorrente tra le righe è il punto di vista femminile nell’Italia dell’epoca e l’importanza dello sguardo profondo e comprensivo della donna di tutte le età.


Recensione

Riscoprire certe meraviglie del passato è sempre esaltante. La casa editrice 13Lab sembra decisamente impegnata e senza dubbio vincente in questa crociata non semplice e, dal mare nostrum dei romanzi dimenticati e degli autori di perduta memoria, riesce immancabilmente a tirare fuori la perla, la chicca, il gioiello che in questo modo torna a brillare, a riflettere la luce e a donare nuove impressioni al lettore.

Nel caso dell’uscita di oggi, 14 marzo, c’è anche di più, perchè insieme al fulgore di un romanzo pubblicato nel 1921, 13Lab festeggia la sua autrice, Maria Messina, che nacque a Palermo proprio il 14 marzo di 136 anni fa. Un’autrice a torto dimenticata se escludiamo alcune ripubblicazioni delle sue opere avvenuta negli anni 80. Nonostante Maria Messina si fosse fatta portavoce scomoda delle istanze femminili dell’epoca, vessillo di tutte le donne che agli albori del XX secolo ancora vivevano schiacciate tra le anguste pareti domestiche, segregate e mute. I suoi scritti risentono pienamente delle prerogative dell’epoca, dentro ad una Sicilia chiusa e perbenista in cui la donna è una creatura vinta, che ritaglia un suo spazio chiudendosi in se stessa, un tutt’uno con il focolare che custodisce e del quale è schiava.

In Personcine sono i fanciulli i messaggeri ai quali Maria Messina affida i propri pensieri, attraverso una serie di racconti in cui il tipico candore dell’infanzia, la semplicità con cui il bambino guarda alla vita e il mondo degli adulti, costituiscono una chiave di lettura portatrice di verità e di saggezza. I bambini spesso sono sottovalutati dai grandi. Le loro esigenze, i loro desideri bistrattati e non presi sul serio, perchè l’infanzia è un contenitore di spensieratezza e di fugacità, che fa dell’abilità di dimenticare la sua forza. Eppure i bambini sanno sopportare e trarre il bello anche dalle esperienze più tremende. Sanno rassegnarsi, sanno adattarsi e spesso insegnano a chi sta loro di fronte, con l’innocenza e la semplicità che li contraddistingue.

I bimbi di Maria Messina sono piccoli adulti in miniatura che affrontano la vita con onestà intellettuale, grazia infinita e grandissima speranza. Sono profondi, altruisti e spontanei e sono attori straordinarie di vita, colmi di qualità che non avremmo mai pensato potessero possedere.

Un raccolta di racconti in cui spunta una morale ad ogni giro di pagina. In cui specchiarsi e cercare di imparare a vivere. Un esempio di resilienza e di fortitudine per noi grandi, che sottovalutiamo i nostri bimbi senza rammaricarci di ciò che il tempo ci ha fatto lasciare indietro.


L’autrice

Maria Messina fu una grande scrittrice di cui, dopo la morte avvenuta nel 1944, si perse il ricordo. La memoria letteraria è stata molto avara nei suoi confronti, solo dopo la ristampa di alcune sue opere nel 1980 e l’attenzione di Leonardo Sciascia, si aprì uno squarcio sul silenzio che la circondava.
Era nata a Palermo il 14 Marzo del 1887 da Gaetano e Gaetana Valenza Traina. Nel 1903 si trasferì con la famiglia a Mistretta e lì visse fino al 1909. La maggior parte delle sue opere risentono delle atmosfere di quel luogo, nel cuore dei Nebrodi, della provincia messinese. In seguito si spostò in varie parti d’Italia per seguire il padre che era un ispettore scolastico: in Umbria, nelle Marche, in Toscana e infine si stabilì a Napoli.
A vent’anni fu colpita dalla sclerosi multipla, malattia che la costrinse a condurre una vita schiva, quasi sempre tra le pareti domestiche.
Intrattenne intensi rapporti epistolari con Giovanni Verga ed Ada Negri. Quest’ultima curò la prefazione ad una sua raccolta di novelle del 1918 Le briciole del destino e pur non avendola mai incontrata le scrive: “Mia piccola sorella Maria, non ti conosco fisicamente ma mi sembra di conoscere bene la tua grande anima”.
Tra le sue raccolte di novelle ricordiamo Pettini fini del 1909, Piccoli gorghi del 1911 e Personcine e Ragazze siciliane del 1921.
Fu anche autrice di libri per ragazzi e ragazze: CenerellaI figli dell’uomo sapienteIl galletto rosso e blu e Il giardino dei Grigoli.


  • Casa Editrice: 13Lab
  • Collana: Myosotis
  • Genere: classico
  • Pagine: 149

RAGAZZE PERBENE di Olga Campofreda

Le donne della mia famiglia sono boccioli di rosa selvatica a cui è stato imposto di fare i gerani. E’ stato così anche per me e per Rossella. Come gerani siamo state curate per essere esposte sui balconi di casa, sotto lo sguardo dei vicini, a esaltare il buon nome dei nostri padri.


Trama

Nelle città di provincia le ragazze perbene si assomigliano tutte. Per sottrarsi a un futuro già raccontato, Clara si trasferisce a Londra, dove insegna italiano a ricchi expat e si trova intrappolata nel vortice degli incontri online. Ma il matrimonio della bellissima cugina Rossella, inseparabile compagna d’infanzia diventata poi modella di abiti da sposa, la richiama a Caserta. Clara si trova così ancora immersa nel mondo da cui è fuggita: all’addio al nubilato della cugina rivede le vecchie compagne di scuola, e nei giorni successivi incontra Luca, lo sposo, con cui aveva stretto in passato un’amicizia clandestina. All’improvviso, però, Rossella scompare senza lasciare traccia. E Clara, convinta che la cugina nasconda qualcosa, scopre nel suo diario un segreto impossibile da confidare, che minaccia il futuro radioso che Rossella ha sempre incarnato. Olga Campofreda toglie il velo sulle seconde vite e i desideri nascosti delle ragazze perbene, i cui destini sono specchio di una femminilità che parla di sacrifici e rinunce, di principi azzurri e segreti, di infelicità che si tramandano nel tempo, di madre in figlia. E racconta la storia di una ragazza che si ribella a sogni e consuetudini già logore, per inventare una strada nuova, tutta sua, da costruire con consapevolezza giorno dopo giorno.

Questo libro è per chi si perde a immaginare le storie dei personaggi ritratti nei quadri, per chi ha passato lunghi pomeriggi ad ascoltare Baby one more time sul walkman, per chi ha scoperto il piacere tra le mani di un estraneo, e per i fiori veri che sbocciano nelle città di plastica, semplici e fragilissimi, e per questo meravigliosi.


Recensione

Lo stigma della ragazza perbene. Chi di noi non l’ha subìto, in vita sua?

Quell’attributo, non meglio specificato, che ci ha fatto inevitabilmente sentire inadeguate. Imperfette. Da migliorare.

Più brave, più obbedienti, più educate, più studiose, più carine, più di noi. Sempre di più, per raggiungere quell’ideale che ci ha fatto tremare in più di un’occasione. Quel modello che ci avrebbe fatto meritare l’amore, la realizzazione, il riconoscimento pubblico delle nostre virtù.

Una cosa, questa, tutta femminile. Relegata al mondo delle femmine, quelle che devono dimostrare di valere, sempre.

E’ inutile negare, sappiatelo. Questa lettura riaprirà in voi, care lettrici imperfette, vecchie ferite. Che, diciamocela tutta, non sono mai rimarginate.

Perchè il confronto con la figlia dell’amica, con la compagna di classe, con la vicina di casa brucia ancora sulla pelle. Quella che avete sempre considerato insipida, melliflua, senza nerbo. Era, è stata ed è tuttora meglio di voi. Voi, che non vi siete sposate, non avete fatto bambini, non avete avuto quella vita da manuale che una ragazza perbene si merita. Voi che avete vagabondato nel limbo del vago, dell’indefinito. Del poi si vedrà. Voi che siete state, siete e sarete deludenti, infelici, incomplete.

Ad Olga Campofreda è bastato poco per toccare i nostri nervi scoperti. Con la storia di Clara, colei che fugge lontano e si lascia alle spalle la provincia italiana e con quella di Rossella, che la natura ha dotato di un aspetto angelico, destinata per questo ad incarnare un ideale di femminilità passiva, basata interamente sulla bellezza e l’idealizzazione della figura femminile, quella destinata al grande amore e ad immolarsi all’altare, al soldo del primo amore.

Entrambe infelici, entrambe depositarie di segreti. Ognuna con il suo fardello, perfezione e imperfezione, due contrari che sono invece concetti vicinissimi e speculari.

A Londra Clara insegue relazioni senza spessore. Si accontenta di una professione che le faccia sbarcare il lunario e sembra aver rinunciato ai suoi sogni. Poi il matrimonio di Rossella la riporta a casa. Dove le ragazze per bene, una dopo l’altra, perdono il loro fulgore, la loro copertura, l’alone di perfezione e di felicità che le incorniciava. Tutte, perfino Rossella, che ha più di un segreto da digerire.

Olga Campofreda confeziona il primo romanzo italiano della collana Le fuggitive. Olga dipinge un acquarello spietato, quello che raffigura la gabbia dorata in cui il tempo e la tradizione imprigionano le ragazze, togliendo loro la voglia di essere se stesse e quella di spogliarsi delle vesti che non le raffigurano e non le rendono giustizia.

Olga Campofreda celebra i desideri di tutte le donne come legittime propaggini del loro essere. Come l’estremo pretesto per deviare da quella strada maestra che secoli di patriarcato hanno segnato per le donne di tutto il mondo. Da quella strada, consumata dai passi di migliaia di donne, Olga fa partire tanti viottoli, impervi tratturi difficili da intraprendere, ma le uniche vie che portano a realizzare quei desideri che rendono la nostra vita unica e degna di essere vissuta.

Un percorso ad ostacoli che mette in conto la difficoltà di non essere capita, di essere additata, criticata, screditata da tutti. Ma un destino di infelicità attende chiunque non dia retta al proprio cuore e alle proprie inclinazioni. Che sia una ragazza perbene oppure no.


L’autrice

Olga Campofreda vive a Londra, dove lavora come ricercatrice in Italian e Cultural studies e insegna scherma per la nazionale inglese Under 20. Nel 2009 ha esordito con La confraternita di Elvis (ARPANet) e i suoi racconti sono apparsi su riviste e blog letterari. Tra le sue ultime pubblicazioni: A San Francisco con Lawrence Ferlinghetti (Giulio Perrone Editore 2019) e il saggio su Pier Vittorio Tondelli Dalla generazione all’individuo (Mimesis 2020). È co-autrice del podcast The Italian Files e insieme a Eloisa Morra cura Elettra, una serie antologica di racconti sul rapporto tra padri e figlie (effequ).


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Collana: Le Fuggitive
  • Genere: narrativa italiana
  • Pagine: 215

LA CASA DEL DESTINO di Jessie Burton

E in quel momento Thea capisce cosa fare. Quell’intuizione la calma. E’ un rischio, e potrebbe non funzionare, ma nessun altro lo correrà perlei e nessuno comunque dovrebbe o potrebbe farlo, Il problema è suo e soltanto suo.


Trama

1705, nell’età d’oro di Amsterdam Thea Brandt compie diciotto anni ed è pronta a diventare una donna adulta. È innamorata di Walter, il pittore teatrale che progetta di sposare, ma a casa i problemi economici sono all’ordine del giorno: suo padre Otto e la zia Nella sono costretti a impegnare i mobili per rimpinguare le finanze malferme dei Brandt. Nella è determinata a salvare l’onore della famiglia – in un mondo dove comandano le regole sociali e l’apparenza – e spera di trovare a Thea un marito che le garantisca un futuro florido. La felicità sembra finalmente
bussare alla loro porta quando arriva l’invito per il ballo più esclusivo di Amsterdam: si affacciano nuove speranze, e la promessa di un avvenire radioso. Anche perché Nella non ha mai dimenticato il misterioso miniaturista che è entrato nella sua vita diciotto anni prima per giocare con il suo destino. Adesso, forse, è tornato per lei.

Jessie Burton ci riporta nel mondo incantato del miniaturista, protagonista del suo esordio best seller, in un romanzo travolgente sull’ambizione e il riscatto, sui sogni e i segreti che li avverano, con una donna determinata a prendere in mano fino in fondo la propria vita.


Recensione

Un ritorno attesissimo. Una storia che si svolge ad Amsterdam agli inizi del 1700, l’epoca d’oro della capitale olandese, centro degli scambi commerciali e vessillo delle opportunità nascenti dal lavoro e dalla vivacità economica e sociale di un popolo.

Il cuore pulsante della città è il protagonista del romanzo. Un luogo che pullula di vita, dove la ricchezza passa veloce lungo i freddi canali e transita dal ricco porto verso l’intero mondo conosciuto. Una ricchezza che è alla portata di chiunque voglia impegnarsi e lavorare. Un mondo borghese che tuttavia si piega alle leggi dell’apparenza e che spesso non accoglie chi è diverso.

Questo lo sa bene Otto, originario del Suriname, la cui pelle color cioccolato non cessa mai di destare curiosità. E lo sa anche Thea, sua figlia, che ha diciotto anni e la voglia incontenibile di vivere l’amore passionale e assoluto. Thea è bella ma scomoda. Cresciuta senza una madre, e dalla pelle color ambra, deve essere accasata con un giovane bravo e ricco. Questo secondo Nella, la zia, che desidera proteggere Thea dentro alla sicurezza di un buon matrimonio. Le finanze di famiglia sono agli sgoccioli e Nella è stanca di mostrare agli altri ciò che non è più, vale a dire una ricca signora che appartiene ad una altrettanto ricca e rispettabile famiglia.

Thea è bella e intelligente e con un buon marito al fianco salvarebbe se stessa e anche la sua famiglia.

Ma le cose non andranno esattamente come Nella ha pianificato. Nella infatti non ha messo in conto la testardaggine della nipote, la sua passione incontenibile, la sua voglia di amare e di essere amata.

E forse neanche Thea, che si trova invischiata cose più grandi di lei, mentre da lontano l’ombra della miniaturista troneggia minacciosa su tutta la famiglia. Insieme ai ricordi di Nella, anch’essa segnata nella sua giovinezza dalla ferita di un sogno infranto.

Eppure l’amore e l’unione troveranno una via per tutti e tre. Basta che ognuno rinunci a qualcosa o accolga in sé pensieri e azioni che sembravano insostenibili.

E come in ogni situazione di caos, il destino troverà da solo un nuovo equilibrio.

E i valori più forti e più giusti avranno la meglio sui falsi valori. E il passato farà la pace con il presente, un presente che può essere inquadrato anche sotto una luce diversa e più favorevole.

Se cercate un romanzo da divorare, che vi trascini lontano nel tempo e nello spazio, ecco, lo avete trovato. Un romanzo che parla anche di diversità, di accettazione di se stessi e di bisogno di condividere. Con un pizzico di coraggio. Quello che serve per chiamare le cose con il loro nome e per voltare le spalle a ciò che non ci fa felici.

Una città magnificamente ricostruita, un’epoca dorata in cui tutto appare possibile e una giovane donna decisa a realizzare la propria vita secondo i suoi desideri e non secondo ciò che la società si aspetta da lei. Thea, un’eroina del suo tempo, capace di insegnarci qualcosa di importante, ancora oggi.


L’autrice

Jessie Burton è nata nel 1982 e vive a Londra. Ha studiato presso l’Università di Oxford e alla Royal Central School of Speech and Drama; ha lavorato per nove anni come attrice, prima di scrivere il suo romanzo d’esordio, Il miniaturista, divenuto in breve tempo uno dei casi editoriali più straordinari degli ultimi anni, con più di un milione di copie vendute nel mondo. La nave di Teseo ha pubblicato La musa (2016), Ragazze scatenate (2018) e La confessione (2020). I I suoi libri sono stati tradotti in quaranta lingue.


  • Casa Editrice: La Nave di Teseo
  • Collana: Oceani
  • Traduzione: Elena Malanga
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 444

LA CASA DEI NOTABILI di Amira Ghenim

Ricordo che la mattina dopo le nozze, quando era sposato da una notte appena, tuo nonno lo ha fatto chiamare per colazione e gli ha detto lisciandosi i baffi: “Dì alla figlia di ar-Rassà, tua moglie, di dimenticarsi quello che faceva in casa di suo padre, perchè le leggi in vigore qui sono le nostre, quelle di casa en-Neifer… E qui nessuno entra o esce senza un motivo valido. Questa è una casa all’antica.”


Trama

Tunisia, anni Trenta. Sullo sfondo di un paese in fermento, alla ricerca della propria identità, si intrecciano le vite e i destini dei membri di due importanti famiglie dell’alta borghesia di Tunisi: la famiglia en-Neifer, dalla rigida mentalità conservatrice e patriarcale, e la famiglia ar-Rassa‛, liberale e progressista. Il nucleo attorno al quale ruotano le vicende narrate nel romanzo è una terribile notte di dicembre del 1935, quando la vita in casa en-Neifer è stata sconvolta da un evento che ha condannato per sempre all’infelicità Zubaida ar-Rassa‛, la giovane moglie di Mohsen en-Neifer, sospettata di aver avuto una storia d’amore clandestina con Taher al-Haddad, intellettuale di umili origini noto per il suo attivismo in ambito sindacale e in favore dei diritti delle donne. Le vicende di quella notte vengono raccontate in prima persona da undici diversi narratori, membri delle due famiglie, in momenti storici diversi (dagli anni Quaranta ai nostri giorni), in un intreccio di segreti, ricordi, accuse, rimpianti ed emozioni che trascinano il lettore in un appassionante viaggio nelle storie dei singoli e nella Storia del paese. Come in un gioco di scatole cinesi, ogni storia ne contiene altre, e al lettore spetta il compito di mettere insieme i tasselli e ricostruire l’intera vicenda nel tentativo di scoprire cosa è accaduto a Zubaida e come sono andate veramente le cose.


Recensione

Confesso che ignoravo totalmente la recente storia della Tunisia. Noi occidentali tendiamo a volte a fare di tutta l’erba un fascio quando parliamo di paesi arabi e di cultura musulmana, pur non sapendo praticamente niente, al di fuori di un po’ di trita retorica, condita da una buona dose di luoghi comuni.

Eppure già nel 1957 la neonata Repubblica tunisina, sorta dalle ceneri del protettorato francese, promulgava il Codice dello Statuto della Persona, con il quale si sanciva una serie di diritti fondamentali alle donne tunisine, tra cui il diritto allo studio e al lavoro, il divieto della poligamia, dei matrimoni forzati e addirittura regolamentava il divorzio e legalizzava l’aborto, quasi venti anni prima che analoga norma fosse scritta in Italia.

Una simile costruzione a favore delle donne prendeva le mosse dal pensiero e dall’attività di un giovane intellettuale di umili origini, Taher al-Haddad, che già nel 1935 scrisse il provocatorio saggio “La nostra donna nella sharia e nella società”, un libello che inneggiava ai diritti della donna e ad una lettura ben diversa delle sacre scritture islamiche, da sempre oggetto di un’esegesi in chiave maschilista e patriarcale.

Ebbene, Taher al-Haddad è il filo conduttore di questo bellissimo romanzo, che inizia nel 1935 e sfiora diversi periodi successivi, attraverso le voci dei protagonisti, ognuno dei quali racconta dal suo punto di vista la storia di due famiglie dell’alta borghesia tunisina degli anni 30, una, gli en-Neifer, spiccatamente tradizionalista, l’altra, gli ar-Rassà, progressista e aperta al nuovo.

Il nucleo della storia è una giornata di inizio dicembre del 1935, quando accade un fatto che determinerà il futuro di tutti i personaggi di questo romanzo. Zubaida ar-Rassà, giovane moglie di Mohsen en-Neifer, viene accusata di avere una storia con Taher al-Haddad, che fu suo precettore quando era ancora nubile.

Da lì accadranno molte cose e i destini delle due famiglie cambieranno per sempre.

Di fatto nessuno saprà mai se Zubaida è colpevole di adulterio e se invece è tutta una montatura dettata dall’invidia e dall’infelicità di qualcuno. Questo tarlo morderà le carni di Mohsen fino alla fine, indeciso sulla condotta da tenere in casi come questo, dove l’onore rischia di essere perduto per sempre, insieme al suo matrimonio.

Tutti daranno la loro versione, compresa la servitù. E ognuno racconterà anche molto di sé, della propria storia, del proprio pensiero in una società che si evolve ma che rimane pur sempre radicata alla tradizione.

Ne esce un quadro magnifico della società del tempo, che stupisce per alcuni tratti di sorprendente modernità e per la sua incisività, che trabocca dai racconti dei protagonisti, giunti fino al al lettore da epoche differenti, spronandolo a ricostruire gli eventi di quella fatidica notte.

La destinataria dei racconti è Hind, la nipote di Zubaida. Hind è davvero la nipote di Taher? E comunque Hind sarà colei che toglierà la polvere dalla storia di sua nonna Zubaida, che cadde vittima di una bassa cospirazione, che le tolse tutto.

“La casa dei notabili” scrive le pagine di un’epoca in bilico tra vecchio e nuovo e getta semi sul terreno fertile del cambiamento. E’ un mosaico di voci e di storie che si intrecciano a formare un cori polifonico coerente e magnificamente disegnato, appannaggio della necessità di scoprire un popolo schiacciato dal peso delle tradizioni e dagli schemi rigidi del patriarcato. Un popolo tuttavia sensibile ai venti del cambiamento, che vuole ribellarsi dalle maglie del protettorato francese e da quelle comunque pesanti e stringenti delle consuetudini.

Una prosa fedele alle voci che vengono dal passato, riccamente ricamata per attirare il lettore nella sua trama sottile. Una lettura indimenticabile, che ci apre uno spiraglio sulla storia di un paese coraggioso e determinato a trovare la propria strada.

Fortemente consigliata. Un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio, cullati da una voce profonda, illuminante e davvero coinvolgente.


L’autrice

Nata nel 1978 in Tunisia, Amira Ghenim è scrittrice e professoressa di Linguistica e Traduzione presso l’Università di Tunisi. Dopo numerosi saggi di stampo accademico, nel 2019 ha pubblicato il romanzo al-Malaff al-Asfar, che l’anno dopo ha vinto il premio Sheikh Rashid bin Hamad. Nel 2020 ha pubblicato il romanzo La casa dei notabili, che è entrato nella rosa dei sei finalisti dell’International Prize for Arabic Fiction e ha ricevuto il premio speciale della giuria del Comar d’Or, il più prestigioso premio tunisino.


  • Casa Editrice: edizioni e/o
  • Traduzione: Barbara Teresi
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 406

LA CREPA di Elena Secchi

Non era una vendetta, era una necessità. L’aveva amato così ciecamente da non accorgersi che il loro rapporto era seduto sulla sabbia, il suo amore era stato così incondizionato da non capire che si deve sempre pagare un prezzo e quel prezzo era ora l’impossibilt di parlare, di capire, di andare a fondo, di tornare indietro e cercare la fonte di quel fiume che l’aveva completamente trascinata via lontano, quel prezzo era ora l’insicurezza per aver avuto troppa fiducia in se stessa e nel suo corrisposto amore.


Trama

Giulia è cresciuta in un piccolo paese di provincia dove ha conosciuto suo marito, Andrea. All’inizio di una carriera che si preannuncia promettente, vive una totale crisi matrimoniale che cambierà completamente il suo modo di vivere mettendo in discussione tutti i principi con cui è cresciuta e persino sé stessa.


Recensione

La vita è il dono che non va sprecato.  Ciò che va fatto è leggersi dentro e avere il coraggio di essere se stessi. Di andare dietro alle aspirazioni senza curarsi delle conseguenze. Senza investire in modo esclusivo ed avventato nelle relazioni.

Veniamo al mondo soli e soli rimaniamo. Nessun’altra creatura può riempire i vuoti di un’esistenza che non sa realizzarsi. Che si nasconde dietro gli alibi che  costruiamo per giustificare il nostro abbarbicarsi alle persone nell’illusione che possano salvarci dalla nostra paure e dai nostri fantasmi.

L’educazione, le buone maniere, la religione e qualsiasi altro laccio non possono che toglierci il fiato e condurci alla morte, fisica e interiore.

Elena Secchi costruisce un romanzo introspettivo molto profondo e sofferto. Una storia di crescita e di consapevolezza,  che trova fondamento nell’esperienza di vita vissuta, che gli anni regalano a chi è disposto a riflettere e a tirare conclusioni sul proprio percorso.

Un romanzo di formazione, che prende per mano Giulia, una giovane donna che si è lasciata guidare dal peso delle aspettative della famiglia, dell’educazione ricevuta, di quel perbenismo che assomiglia a un drappo appoggiato sugli occhi e a dita che soffocano le orecchie. Per non farci sentire la vita che vibra e urla, incitandoci a rincorrere la felicità. Che non è necessariamente un matrimonio, un lavoro rispettabile, quell’aria irrespirabile che ci impone solo regole di comportamento e tappe da raggiungere.

Giulia vedrà franare le sue certezze. Dovrà ritrovare un suo equilibrio, rialzandosi dopo diverse rovinose cadute.

Giulia capirà che la felicità sta solo dentro di lei e che nessuno può supplire ai vuoti della sua vita.

Giulia sbaglierà, cercherà rimedi, soccomberà e affronterà un profondo disincanto.

E alla fine risorgerà, lasciandosi alle spalle un passato che pesa come un macigno sulla sua crescita personale. Perchè ogni crisi, ogni caduta, può celare quell’input che può cambiarci la vita.

“La crepa” è la storia di un percorso in cui tutti possiamo riconoscersi. 

Non è un romanzo facile. È una lettura che scopre i nostri punti deboli, anche quelli che vogliano tenere nascosti.

Quegli alibi che ci concediamo per assolvere le nostre scelte poco coraggiose. Quelle per cui ci accontentiamo. Quelle che hanno le sembianze del compromesso.

Quelle che nascondono i nostri sensi di colpa.

Gli alibi che ci allontanano dalle felicità, che spesso fa a cazzotti con le convenzioni e con ciò che ci sentiamo in dovere di rispondere, sempre.

Brava Elena Secchi, che esordisce con questo romanzo dai toni drammatici che sfumano tuttavia verso la luce. Quella che ognuno di noi ha il dovere di rincorrere sempre, a qualunque costo.

Un prosa semplice, cadenzata da capitoli brevi e una incredibile capacità di analisi, una chiarezza quasi dolorosa e un’importante lezione di vita che invita al coraggio e a essere autentici, sempre. Un voce che sottolinea quella forza, propria della donna, che fa prendere in mano le redini della vita, quando giunge ad un punto morto e la reinventa, riscrivendone la storia.


L’autrice

Elena Secchi è nata a Livorno e vive a Castiglioncello. Ha frequentato studi tecnici ed è impiegata in banca da oltre 25 anni. Sposata e con un figlio, è amante della scrittura, adora cucire e fare lavori manuali, vedere film e spettacoli, ballare, viaggiare e condividere il proprio tempo con gli amici. Attualmente ha cinque gatti. Ha pubblicato la raccolta di poesie “A piccoli passi” edita da “Il Gabbiano”. “La crepa” è il suo primo romanzo.

IL DOLORE CREA L’INVERNO di Matteo Porru

Sai che differenza c’è tra un ricordo e un rimpianto, Boris? (…) <<Mah, che il ricordo lo vedi e il rimpianto lo senti?>>. <<Forse, dice Legasov, e beve, <<ma io ho un’altra teoria>>. <<Cioè?>>. <<Il ricordo si muove, il rimpianto no: è freddo, fermo e preme su tutto. Il ricordo lo puoi cancellare, modificare. Il rimpianto rimane, non va mai via, non si copre, non si arrende>>.


Trama

Intorno c’è solo neve. E bianco. La neve copre le cose, le case, le persone. Anzi, alle persone la neve cade dentro e il freddo le circonda ma, soprattutto, si diffonde nelle ossa, negli occhi e nei pensieri. Elia Legasov è nato in un paese circondato dal bianco, e da lì non è mai andato via. Il suo lavoro è spalare la neve, liberare strade su cui nessuno camminerà. La neve è sua amica, fino a quando non lo tradisce. Finché non fa emergere qualcosa dalle sue profondità. Qualcosa che ha a che fare con la sua famiglia e che doveva restare sepolto. Da quel momento, nella mente di Elia si affollano ricordi che aveva soffocato. Parlano di un padre, scomparso tanti anni prima, e di una madre, partita per sempre. Sono parole dolci, gesti delicati, sorrisi sinceri. Ma anche duri come il ghiaccio. E dolorosi. Elia capisce allora che quello che si dice dei membri della sua famiglia è vero: la neve non li protegge, ma li tenta, li provoca, per vedere se sono capaci di dimenticare, perché tutti dimenticano, ma i Legasov ricordano, sempre. Ora è venuto il suo turno di ricordare. Qualunque sia il prezzo. Qualunque cosa venga a galla. Perché è nelle case che il passato nidifica. È nelle famiglie che si riproduce, nei giorni bianchi e nei giorni neri. Perché il dolore crea l’inverno. Ma ogni inverno è diverso da quello precedente e da quello successivo.


Recensione

Dimenticare o ricordare. Matteo Porru, classe 2001, fa oscillare la sua penna tra queste due estremità, tra questi due opposti, che a volte sono una scelta dell’uomo e a volte sono una necessità dettata dall’istinto di sopravvivere ad un passato che annienta.

Dimenticare o ricordare. Accogliere il passato o rifiutarlo. Se ammettiamo che ognuno è frutto di ciò che è stato, di ciò che è sedimentato, strato dopo strato, sulla propria coscienza, allora dimenticare è negare se stessi concedendoci il privilegio di nascere e rinascere infinite volte. E ricordare è portare il peso del passato sulle spalle. Peso o esperienza. In ogni caso qualcosa di immutabile che va digerito e interiorizzato.

La neve è ciò che copre e nasconde. Se vivi nell’estremo nord del mondo, lo sai bene. In quel nulla, fatto di accecante candore, dentro ad una vita schiacciata dalla ripetizione degli eventi e dall’inclemenza degli elementi, la neve cade per nascondere tutto. E si dimentica, nell’intento di provare a sopravvivere. Se stessi, il proprio vuoto, le solitudini che si inerpicano dentro ai cuori, inaridendoli, l’ambiente inospitale in cui persino il cielo cade, certi giorni.

Ma Elia Legasov non può dimenticare. Lui spala la neve, nelle strade desolate di Jievnibirsk.

Toglie uno strato, e un altro. Toglie, elimina e ricorda. Una missione che da sempre investe la sua famiglia. La sua vita è scandita dal “bestione”, che lui guida ogni giorno. E’ solo ormai e gli rimangono solo un paio di amici, anche loro accerchiati dagli urli della solitudine. Vivi senza sapere cosa farsene di una vita che si srotola sempre uguale, chiusa nel riserbo del gelo e dell’inverno artico.

Ma un giorno arriva un gruppo di forestieri. Cercano il petrolio. Si scava e si scopre un corpo sotterrato nella neve.

Lo spettro del passato è inarrestabile. La sua voce scuote la comunità. Spinge per uscire allo scoperto. Cadono le cateratte che tengono fermi i ricordi. Il fragore è assordante. Ciò che rivelerà cambierà ogni cosa per sempre.

Il romanzo di Porru ha echi profondi, che risuonano sulla coltre innevata. Porru descrive un inferno sulla terra che non serba pietà per nessuno. Un luogo che sembra esistere solo per annientare. Un luogo in cui l’uomo è solo con se stesso, a combattere con il presente che schiaccia e i fantasmi che premono per uscire allo scoperto ma sono ibernati sotto lo strato di ghiaccio perenne.

Ma anche in un deserto di bianco gelido e sferzante l’uomo costruisce la sua esistenza sulle scorta della sua storia personale. Impara dall’esperienza, cerca il calore di un abbraccio, tesse una ragnatela di sfuggenti relazioni. Dimentica ma è costretto a ricordare. I segreti che tengono insieme i brandelli di una famiglia e il ricordo indelebile di una pugnalata, che sanguina ancora.

Sono i recessi della coscienza umana quelli che Porro indaga, con una lucida analisi e un disincanto che non ci si aspetta da un ragazzo di poco più di vent’anni. Il resto è una storia vecchia di secoli. Quella che si appoggia sulle scelte dell’uomo riguardo al suo passato: ricordare o dimenticare.

L’ambiente avverso contribuisce a corroborare l’idea di un’esistenza tirata al limite, dove ogni elemento gioca per appesantire lo scorrere del tempo e per far risuonare le grida del passato, indimenticabile ma anche foriero di inaspettati risvolti. Quelli che non si sono conosciuti per scelta e forse era meglio conoscere.


L’autore

A soli diciotto anni, Matteo Porru ha vinto il premio Campiello Giovani. Per la stampa è uno dei venticinque under-25 più promettenti al mondo. Ora arriva in libreria con un romanzo sospeso nel tempo e nello spazio che parla di legami familiari, rimpianti e vissuti indelebili. Un romanzo che ci ricorda che siamo tutti fatti di carne e neve.



  • Casa editrice: Garzanti
  • Genere: narrativa
  • Pagine: 159

MAUD MARTHA di Gwendolyn Brooks

Aveva sempre voluto qualcosa di solido. Una forma lucente, calda, ma dura come la pietra e difficile da scalfire. Voleva creare una sua tradizione, plasmare un insieme di abitudini infallibili per lei,per lui, per la piccola Paulette.


Trama

“Maud Martha è nata nel 1917. È ancora viva”: si apre così l’unico romanzo scritto dalla celebre poetessa Gwendolyn Brooks, la prima afroamericana a vincere il Premio Pulitzer. Un romanzo dalla struttura originalissima, che in 34 fulminanti capitoli racconta tutta la vita della protagonista attraverso un prisma di informazioni minime, rarefatte, poetiche. Maud Martha Brown è una ragazzina cresciuta nel South Side della Chicago degli anni Quaranta. Tra bettole fatiscenti e cortili incolti, sogna New York, un amore romantico, il futuro. Ammira i denti di leone, impara a bere il caffè, si innamora, arreda il suo angolo cottura, sventra un pollo, risparmia un topo, compra cappelli, cerca di vedersi bella, partorisce una bambina. Anche suo marito, che ha la pelle solo un po’ più chiara, ha dei sogni: il Foxy Cat Club, le donne bianche, il mito della guerra. Ma i sogni di Maud Martha e di quelli come lei vengono, immancabilmente, messi alla prova da “brandelli di odio sgomento”: una certa parola di una commessa, quella visita al cinema, la crudeltà di un Babbo Natale nei grandi magazzini. Una realtà inospitale, dura, né bianca né nera, ma fondamentalmente grigia: una realtà in cui, anche se la rassegnazione è la scelta più ovvia, c’è chi, come Maud Martha, trova ancora il modo di non arrendersi, pur di rendere luminosissimo quel grigio. Malgrado tutto. Scritto nel 1953 ma pubblicato ora per la prima volta in Italia, Maud Martha è un mosaico delicato e devastante, capace di trasmettere al lettore il ritratto straordinario di una vita ordinaria, vissuta con saggezza, umorismo, rabbia, dignità e gioia.


Recensione

Maud Martha non è un’eroina, ma una donna che nasce nel 1917 in America e vive la sua vita, con l’occhio attento ad osservare ciò che la circonda e una testa pensante che registra ogni evento, lo analizza e ne trae delle conclusioni.

Maud Martha ha la pelle nera. Molto scura, più scura di tanti suoi coetanei e sicuramente più nera della pelle di Paul, che sposerà, con circospezione, disincanto e una dose di incredulità.

Maud vuole essere amata, fin dalla tenera età. Ma sa di dover combattere una battaglia che durerà quanto la sua vita per sentirsi davvero accettata. Da un lato Helen, la sorella maggiore, che la relega nell’ombra, con la sua bellezza e la sua grazia. Dall’altro il marito stesso, che dopo il matrimonio perde interesse per lei, sicuramente in cerca di una donna dalla pelle più chiara. E anche perchè deluso dalla vita, che lo esclude, come esclude molte persone di colore, dagli ambienti che contano, trattenendolo in luoghi incerti, angusti, in cui non si sente apprezzato.

Maud Martha ha piena percezione che il razzismo è palpabile, presente e incancellabile. Lo vede negli occhi di chi incontra, lo sente nel cuore e lo sente spesso anche con le sue orecchie, costrette a digerire insulti e commenti spiacevoli. Non è insolito che in un luogo Maud Martha si senta osservata. E trova orribile che anche la figlioletta provi fin da subito i graffi del pregiudizio su di sé. Una specie di tumore che si diffonde a macchia d’olio passando dal corpo della madre a quello della bambina, che non ha ancora percezione di cosa sia il mondo e di cosa dovrà affrontare crescendo.

Ma Maud Martha comunque resiste. Senza opporsi platealmente, senza lottare. Maud non grida. La sua ribellione è un tuono sordo ma non per questo meno assordante.

Perché Maud sa muoversi senza ferirsi nei rovi dell’intolleranza e sa meravigliarsi davanti a cose piccole, minuscole, che lei però riesce a vedere e a tradurre in soddisfazione. In fondo la sua vita non è stata così cattiva se lei è riuscita a schivare la tragedia che nasce dalla piccolezza e dalla stupidità umana.

Questo spaccato di vita è una curiosa finestra che si affaccia sugli anni della crescita e della formazione di una giovane donna di colore, che muove i suoi primi passi quasi inconsapevole delle difficoltà che dovrà affrontare ma che piano piano le interiorizza, le fa sue, ne fa un punto di forza. Perchè lei vuole abbracciare la vita senza rinunciare e si sforza di rendere accettabile ogni cosa che le capiti. Senza lamentarsi, raccontando le sie giornate con distacco ma anche con profondità e riflessione.

Certo è che leggere questo romanzo quando fu pubblicato, negli anni 50, deve essere stato tutta un’altra cosa. A quel tempo sì che era un grido quello che premeva dalle pagine, per uscire allo scoperto ed essere ascoltato da tutti. Un grido in sordina, che rompe il silenzio senza scuotere chi ascolta. Perchè non c’è niente di più assordante di una parola forte sussurrata all’orecchio.

Oggi Maud Martha rimane una pagina di meravigliosa prosa, che fa della semplicità la sua forza e che lavora mediante immagini isolate, fresche e piene di meraviglioso sdegno e potentissima critica verso una società che ripudia l’uguale dignità.

Maud Martha esce per la prima volta in Italia. Un’opera imperdibile e una penna assolutamente da conoscere, quella di Gwendolyn Brooks, poetessa aafroamericana, la prima a vincere il Premio Pulitzer per la poesia nel 1950.


L’autrice

Gwendolyn Brooks (1917-2000) è stata una poetessa e scrittrice afroamericana, la prima a vincere il Premio Pulitzer per la poesia. Ha esordito con A Street in Bronzeville, raccolta di poesie pubblicata nel 1945 dalla casa editrice Harper & Row, che ha riscosso un immediato consenso dalla critica e le è valsa la prima Guggenheim Fellowship. Nel 1950 ha pubblicato la sua seconda raccolta, Annie Allen, con la quale ha vinto l’Eunice Tietjens Prize dalla rivista “Poetry” e il Premio Pulitzer.


  • Casa Editrice: La Tartaruga
  • Traduzione: Gioia Guerzoni
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 142

COME D’ARIA di Ada D’Adamo

Io sono il mio corpo, che accumula segni, ferite, cicatrici. Corpo che è il mio sigillo, testo che parla di me. “Nella malattia rivelo tutto il mio essere. Nella malattia mi sviluppo, cresco come un fiore, trovo la mia vera vita” ha scritto Franz Kafka. Il mio corpo mi ispira, mi guida, mi insegna. In lui -qualunque corpo sia- devo credere. Solo se riprendo fiducia nel mio corpo, lo posso esporre ai tuoi assalti. Posso farmi invadere da te, non temere più nulla.


Trama

Daria è la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre, che sulla soglia dei cinquant’anni scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontarle la loro storia. Tutto passa attraverso i corpi di Ada e Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza. Le parole attraversano il tempo, in un costante intreccio tra passato e presente. Un racconto di straordinaria forza e verità, in cui ogni istante vissuto è offerto al lettore come dono.


Recensione

Il corpo parla infinite lingue. Amore, sorpresa, sofferenza, vicinanza. Nella sua straordinaria chiarezza sa dire ogni cosa. Senza filtri . Senza sbagliare, senza fraintendere.

Ada lo sa. Con il suo corpo ha intessuto un dialogo fitto, autentico. Con il suo corpo sa esprimere ogni cosa. E lo sa ascoltare. Capire ogni sfumatura, accogliere ogni suggerimento.

Anche quando il corpo soffre. Anche quando è malato, esso mantiene questa sua capacità incredibile.

Ada vive con la malattia a fianco. Sua figlia Daria è malata gravemente. Il percorso della sua crescita è stato arduo. Sempre da sola. Sempre in salita. La malattia isola e spaventa. La malattia spesso è incomprensione. Nessuno sa immaginare o immedesimarsi nella fatica di andare avanti contro tutto e tutti. 

E poi anche Ada si ammala. Il suo corpo abituato a danzare, ad accogliere e a sentire, la tradisce.

Attraverso la malattia Ada ripensa alla sua vita, a Daria e alle scelte che non ha potuto fare. Al suo percorso, che Daria ha arricchito. A quello che Daria le ha insegnato, pur senza potersi esprimere a parole.

Ma Ada ripercorre anche le difficoltà che ha incontrato per strada: l’inclusione scolastica, spesso solo una parola, l’innominabilità dell’aborto terapeutico, la legge 194, un baluardo che a volte viene nascosto, celato come una vergogna.

Come D’aria è una storia d’amore. Un amore che non si sottrae davanti alle difficoltà e che accoglie ogni goccia, ogni passo, ogni sguardo in un grembo materno caldo e senza confini.

La storia di Ada e quella di Daria. Che è un cammino tortuoso fatto di cadute e di gioie inaspettate. Il pensiero di cosa è stato e cosa poteva essere. Le cose distrutte e quelle salvate. L’amore che avvolge tutto il male, con la pretesa di poterlo dissolvere.

La prepotenza di un amore che è luce e buio insieme. L’amore che fonde due esseri umani, sovrapponendoli, nella confusione.

Ada e quella forza atavica e inesauribile che è propria della donna. I pesi che le gravano sulle spalle. La responsabilità delle sue scelte, compreso quelle che non ha potuto fare. Quell’occhio che da sempre la scruta, pronto a vederla cedere. Quel suo risolvere sempre tutto. Nel riso come nelle lacrime. Quell’amore che ti porti dentro, pronto ad esplodere e a illuminare.


L’autrice

ADA D’ADAMO. Nata a Ortona, vive e lavora a Roma, dove è diplomata all’Accademia Nazionale di Danza e laureata in Discipline dello Spettacolo. Ha trascorso molto tempo a osservare il corpo e le sue declinazioni sulla scena contemporanea, e lo ha scritto in diversi saggi sulla danza e il teatro.


  • Casa Editrice: Elliot Edizioni
  • Genere: biografia
  • Pagine: 132

LA LIBRERIA DEI GATTI NERI di Piergiorgio Pulixi

“Buongiorno, ce l’avete Sequestro un uomo?”. Nell’udire quella voce, seguita da una risata divertita, Marzio sorrise. Si voltò verso la signora Solinas, l’investigatrice del martedì appassionata di thriller sanguinolenti e gialli nordici. “Te l’hanno mai chiesto storpiato in questo modo?” domandò la simpatica vecchietta. “Non hai idea di quante volte è successo”. “La migliore è stata: “Ce l’ha Sequestro un uomo di Primo Levis?”


Trama

Grande appassionato di gialli, Marzio Montecristo ha aperto da qualche anno nel centro di Cagliari una piccola libreria specializzata in romanzi polizieschi. Il nome della libreria, Les Chats Noirs, è un omaggio ai due gatti neri che un giorno si sono presentati in negozio e non se ne sono più andati, da lui soprannominati Miss Marple e Poirot. Nonostante il brutto carattere del proprietario, la libreria è molto frequentata, ed è Patricia, la giovane collaboratrice di Montecristo, di origini eritree, a salvare i clienti dalle sfuriate del titolare. La libreria ha anche un gruppo di lettura, “gli investigatori del martedì”, un manipolo di super esperti di gialli che si riuniscono dopo la chiusura per discettare del romanzo della settimana. È una banda mal assembrata ma molto unita, di cui Marzio è diventato l’anima, suo malgrado. Un anno prima il gruppo si è dimostrato capace di aiutare una vecchia amica di Montecristo a risolvere un vero caso da tutti considerato senza speranza. Ora la sovrintendente Angela Dimase torna a chiedere la loro collaborazione per un’indagine che le sta togliendo il sonno: un uomo incappucciato si è presentato a casa di una famiglia, ha immobilizzato due coniugi e il loro figlioletto e ha intimato all’uomo di scegliere chi doveva morire tra la moglie e il figlio; se non avesse deciso entro un minuto, li avrebbe uccisi tutti e due. Il sadico killer viene presto soprannominato «l’assassino delle clessidre», visto che sulla scena del crimine ne lascia sempre una. Riusciranno gli improbabili “investigatori del martedì” a sbrogliare anche questo caso, intricato quanto agghiacciante, permettendo alla polizia di fermare il feroce assassino prima che colpisca di nuovo? Pulixi firma un giallo pieno di suspense e ironia che parla di libri e omaggia i classici del mystery, rendendo i lettori i veri protagonisti di questa storia.


Recensione

Aria fresca, personaggi irresistibili, venati di grande realismo e di sottile ironia, un’indagine serrata, un serial killer efferato e il male che seppure crudele e contorto non riesce a sfaldare l’atmosfera soave, lieve, piena di sentimenti positivi, al netto, naturalmente, delle morti che Pulixi racconta e che costituiscono il nucleo del romanzo.

Del resto, in questo romanzo, c’è un insieme di elementi che amo: il mistero, i libri, i gatti.

Posto che il mistero deve rimanere tale, per non sciupare il gusto di chi si approccia alla lettura, Pulixi nel suo romanzo costruisce un vero e proprio omaggio ai libri noir e gialli del nostro recente passato e ai loro autori: Agatha Christie, Simenon, Arthur Conan Doyle, Edgar Allan Poe ma anche Scerbanenco, Connely, Castillo. I gatti, poi, sono molto più che comparse, un po’ perchè appaiono nel titolo del romanzo, un po’ perchè due splendidi gattoni neri sono le impertinenti mascotte della libreria che il protagonista, Marzio Montecristo, gestisce a Cagliari, con tutte le difficoltà di un mercato sempre più falcidiato dalle grandi catene distributive e dall’assottigliarsi del novero degli appassionati della carta.

Insomma, tutto ruota intorno ai libri, e questo ovviamente mi piace!

I libri sono il collante che tiene unito il gruppo di lettori del martedì, amanti del genere giallo e investigatori dilettanti e anche l’ancora che ha tratto in salvo Montecristo, quando ha dovuto abbandonare la carriera di insegnante.

I libri e il loro universo, fatto della memoria delle letture del nostro passato e della curiosità che prende il lettore sottobraccio e lo accompagna verso nuove sfide e avventure.

I libri, questi sconosciuti, per coloro che si avvicinano per la prima volta al loro mondo variegato e caleidoscopico, pur senza avere coscienza e conoscenza (e qui mi riferisco agli aneddoti che Pulixi ci propina nel romanzo, di malcapitati pseudo lettori che storpiano i titoli dei libri o si lanciano in richieste impossibili, strappandomi diversi sorrisi (leggere per credere!).

Pulixi sa come intrattenere il suo pubblico, con un linguaggio sapientemente ironico e popolare, con il quale tratteggia i suoi vividi personaggi. Impossibile non amare Montecristo, sfigato quanto basta, irascibile e sanguigno, senza filtri, sincero e diretto anche quando si tratta di litigare con qualche cliente inconsapevole e sbadato. Impossibile non innamorarsi di ogni personaggio, ognuno così ben caratterizzato da poter sembrare vivo.

Insomma, l’autore confeziona un godibile thriller che poggia su una base ricca e irresistibile, che rende l’esperienza di lettura unica e irripetibile.

Per me un enorme si! Leggete questo libro, diffondetelo e regalatelo a cuor leggero perchè piacerà a tutti. Grandi, piccoli, uomini e donne, amanti del thriller e non solo.

Quando in un libro si muovono persone vere, dentro a storie che ci assomigliano, il successo è automatico.

Grande fascio di luce su di te, Piergiorgio. Hai fatto davvero un ottimo lavoro, ottemperando al primo comandamento dello scrittore: prendere a braccetto il lettore, farlo divertire e condurlo in un altra dimensione, almeno per il lasso di tempo in cui sfoglia le pagine. Incuriosirlo, farlo riflettere e farlo sorridere, spandendo una pioggerellina di ironia su ogni cosa.


L’autore

Piergiorgio Pulixi è nato a Cagliari nel 1982 e vive a Milano. Ha pubblicato diversi romanzi polizieschi con cui ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui il premio Scerbanenco 2019 per il miglior noir dell’anno. È considerato uno dei maggiori esponenti della nuova generazione di scrittori noir e thriller. I suoi romanzi sono tradotti in Francia, Spagna, Germania, Austria, Svizzera, Polonia e Russia.


  • Casa Editrice: Marsilio Editore
  • Genere: thriller
  • Pagine: 304

UN GIORNO DI FESTA di Joyce Maynard

Fu di nuovo uno di quei momenti in cui, per un attimo, appena ti svegli, non ricordi quello che sta succedendo. Aprendo gli occhi nella mia camera dove mancava tutto, impiegai un po’ a capire persino dove mi trovassi. Poi mi tornò in mente tutto quanto.


Trama

A tredici anni, Henry si sente separato dal mondo. Vive con sua madre Adele, una donna bella e triste, che dopo un divorzio difficile si è chiusa in se stessa; ha poche occasioni di svago e nessun amico, finché nel fine settimana del Labor Day un uomo dai vestiti sporchi di sangue lo avvicina al supermercato, chiedendogli aiuto. Si chiama Frank e rivela di essere evaso dall’infermeria del penitenziario, ma nonostante il rischio Henry e Adele non esitano ad accoglierlo in casa con loro. E in pochi, intensissimi giorni, la loro vita cambia radicalmente: Adele riscopre la passione con Frank, che cerca di redimersi da un tragico errore; Henry trova finalmente una figura paterna, con cui imparare a giocare a baseball, a cucinare una torta perfetta, a confrontarsi con la gelosia e l’amore. Così, mentre fuori la polizia dà la caccia a Frank, in casa il tempo sembra scorrere lento, racchiuso nell’intimità di una famiglia ritrovata.

Delicato e avvincente, Un giorno di festa parla di un ragazzo che affronta la difficoltà di crescere, di un pericolo che si trasforma in rinascita, di destini che si intrecciano all’improvviso per un gesto di fiducia. Dopo L’albero della nostra vita, Joyce Maynard tesse una trama perfetta, in cui le vite di tre persone cambiano in un unico, travolgente weekend, aprendosi alla speranza della felicità.


Recensione

La salvezza può assumere tante forme. La salvezza può giungere all’improvviso, in soccorso di qualcosa che va alla deriva.

Qualcosa che non ha a che fare con noi, perché chi ha bisogno di un salvagente, non si salva da solo. Si lascia trasportare dalla corrente. Sballottare dai flutti, lasciando aperta la possibilità di inabissarsi.

Henry e sua madre Adele si trascinano da diversi anni in una simile situazione. Da che il padre di Henry li ha lasciati, Adele è scivolata in un torpore sempre più avvolgente. Non ha più amici, non esce più di casa, non ha un lavoro. Henry ha tredici anni e si rende perfettamente conto che la madre sta ad un passo dalla follia, mentre lui è in continua lotta con il suo corpo, che si sta trasformando, con nuove forme e nuovi inquietanti desideri, che Henry cerca di decifrare e di manovrare a suo favore, per staccarsi di dosso l’etichetta dello sfigato di turno.

Un duo insolito, destinato ad un futuro sempre più cupo e solitario. Finchè un giorno, durante una delle rare visite al centro commerciale, Frank si insinua nella loro vita.

Adele e Henry si lasciano attraversare da questa apparizione e ospitano Frank a casa loro. Frank è evaso dal carcere e ha bisogno di nascondersi per un po’.

Inizia così una convivenza forzata che sin da subito si rivela sorprendente. Frank è gentile e premuroso. Si occupa della casa e dei suoi mesti abitanti, portandovi una ventata di aria fresca, che profuma di occasioni mancate, di possibilità, di muri che si sgretolano, di barriere che cadono e di interesse, di fiducia. Un’apertura improvvisa e salvifica che scuote Adele dal suo sonno e apre ad Henry una breccia nel cuore. All’improvviso l’eco dell’idea di una famiglia felice si affaccia su ognuno di loro, mostrando la tenerezza, la forza e l’ebrezza di essere amato, di avere una spalla cui appoggiarsi. Di non essere più solo, di poter consegnare la propria vita nelle mani di un’altra persona.

Ma ogni piccola felicità ha il suo conto da pagare. E il tarlo del dubbio, della gelosia, della paura inizia a rosicchiare dall’interno.

Fidarsi, abbandonarsi al nuovo, abbracciare l’avventura, lasciarsi tutto alle spalle. Tutto questo può spaventare e indurre nell’errore.

“Un giorno di festa” parla di occasioni perdute e della felicità, una luce accecante e caldissima che illumina e scalda da lontano, ma che da vicino brucia.

E’ quell’altalena che ogni giorno ci culla, portandoci in alto, in un’ascesa estatica e vertiginosa e, subito dopo, trascinandoci al punto di partenza, in basso, dove la banalità di ogni giorno ci schiaccia ma è anche rassicurante.

La felicità è vicina, basta allungare la mano. Ma a volte non lo si fa abbastanza e perdiamo quell’attimo benedetto e salvifico. E allora bisogna aspettare che la felicità passi nuovamente da noi, con pazienza.

E poi passa, prima o poi accade. E allora non vi saranno più dubbi, né timori. Allungheremo la mano, fino a sporgersi sul precipizio, e afferreremo quella felicità che già ci apparteneva ma che abbiamo lasciato andar via.

Joyce Maynard ci ha abituati alla bellezza delle sue trame e alla soavità della sua prosa. Bella, intima, parla sottovoce ma scava gallerie e cunicoli nella nostra memoria. Un romanzo davvero bellissimo, che parla il linguaggio della felicità e della speranza. Un libro che ci esorta a credere nel prossimo e anche in noi stessi. Che ci dice di non chiudere la porta a chiave, ma di lasciarla socchiusa, sempre. Qualcuno varcherà la soglia, prima o poi.


L’autrice

Joyce Maynard è una scrittrice e sceneggiatrice americana, giornalista per il New York Times, Vogue, O, The Oprah Magazine, e The New York Times Magazine. Ha pubblicato diciassette libri, tra cui At Home in the World, che racconta la sua relazione da giovanissima con J.D. Salinger. Il suo romanzo To Die For è diventato il celebre film Da morire, così come Labor Day, di prossima pubblicazione per NNE, è stato portato sul grande schermo da Jason Reitman.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Traduzione: Federica Merani
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 236