LA CREPA di Elena Secchi

Non era una vendetta, era una necessità. L’aveva amato così ciecamente da non accorgersi che il loro rapporto era seduto sulla sabbia, il suo amore era stato così incondizionato da non capire che si deve sempre pagare un prezzo e quel prezzo era ora l’impossibilt di parlare, di capire, di andare a fondo, di tornare indietro e cercare la fonte di quel fiume che l’aveva completamente trascinata via lontano, quel prezzo era ora l’insicurezza per aver avuto troppa fiducia in se stessa e nel suo corrisposto amore.


Trama

Giulia è cresciuta in un piccolo paese di provincia dove ha conosciuto suo marito, Andrea. All’inizio di una carriera che si preannuncia promettente, vive una totale crisi matrimoniale che cambierà completamente il suo modo di vivere mettendo in discussione tutti i principi con cui è cresciuta e persino sé stessa.


Recensione

La vita è il dono che non va sprecato.  Ciò che va fatto è leggersi dentro e avere il coraggio di essere se stessi. Di andare dietro alle aspirazioni senza curarsi delle conseguenze. Senza investire in modo esclusivo ed avventato nelle relazioni.

Veniamo al mondo soli e soli rimaniamo. Nessun’altra creatura può riempire i vuoti di un’esistenza che non sa realizzarsi. Che si nasconde dietro gli alibi che  costruiamo per giustificare il nostro abbarbicarsi alle persone nell’illusione che possano salvarci dalla nostra paure e dai nostri fantasmi.

L’educazione, le buone maniere, la religione e qualsiasi altro laccio non possono che toglierci il fiato e condurci alla morte, fisica e interiore.

Elena Secchi costruisce un romanzo introspettivo molto profondo e sofferto. Una storia di crescita e di consapevolezza,  che trova fondamento nell’esperienza di vita vissuta, che gli anni regalano a chi è disposto a riflettere e a tirare conclusioni sul proprio percorso.

Un romanzo di formazione, che prende per mano Giulia, una giovane donna che si è lasciata guidare dal peso delle aspettative della famiglia, dell’educazione ricevuta, di quel perbenismo che assomiglia a un drappo appoggiato sugli occhi e a dita che soffocano le orecchie. Per non farci sentire la vita che vibra e urla, incitandoci a rincorrere la felicità. Che non è necessariamente un matrimonio, un lavoro rispettabile, quell’aria irrespirabile che ci impone solo regole di comportamento e tappe da raggiungere.

Giulia vedrà franare le sue certezze. Dovrà ritrovare un suo equilibrio, rialzandosi dopo diverse rovinose cadute.

Giulia capirà che la felicità sta solo dentro di lei e che nessuno può supplire ai vuoti della sua vita.

Giulia sbaglierà, cercherà rimedi, soccomberà e affronterà un profondo disincanto.

E alla fine risorgerà, lasciandosi alle spalle un passato che pesa come un macigno sulla sua crescita personale. Perchè ogni crisi, ogni caduta, può celare quell’input che può cambiarci la vita.

“La crepa” è la storia di un percorso in cui tutti possiamo riconoscersi. 

Non è un romanzo facile. È una lettura che scopre i nostri punti deboli, anche quelli che vogliano tenere nascosti.

Quegli alibi che ci concediamo per assolvere le nostre scelte poco coraggiose. Quelle per cui ci accontentiamo. Quelle che hanno le sembianze del compromesso.

Quelle che nascondono i nostri sensi di colpa.

Gli alibi che ci allontanano dalle felicità, che spesso fa a cazzotti con le convenzioni e con ciò che ci sentiamo in dovere di rispondere, sempre.

Brava Elena Secchi, che esordisce con questo romanzo dai toni drammatici che sfumano tuttavia verso la luce. Quella che ognuno di noi ha il dovere di rincorrere sempre, a qualunque costo.

Un prosa semplice, cadenzata da capitoli brevi e una incredibile capacità di analisi, una chiarezza quasi dolorosa e un’importante lezione di vita che invita al coraggio e a essere autentici, sempre. Un voce che sottolinea quella forza, propria della donna, che fa prendere in mano le redini della vita, quando giunge ad un punto morto e la reinventa, riscrivendone la storia.


L’autrice

Elena Secchi è nata a Livorno e vive a Castiglioncello. Ha frequentato studi tecnici ed è impiegata in banca da oltre 25 anni. Sposata e con un figlio, è amante della scrittura, adora cucire e fare lavori manuali, vedere film e spettacoli, ballare, viaggiare e condividere il proprio tempo con gli amici. Attualmente ha cinque gatti. Ha pubblicato la raccolta di poesie “A piccoli passi” edita da “Il Gabbiano”. “La crepa” è il suo primo romanzo.

IL DOLORE CREA L’INVERNO di Matteo Porru

Sai che differenza c’è tra un ricordo e un rimpianto, Boris? (…) <<Mah, che il ricordo lo vedi e il rimpianto lo senti?>>. <<Forse, dice Legasov, e beve, <<ma io ho un’altra teoria>>. <<Cioè?>>. <<Il ricordo si muove, il rimpianto no: è freddo, fermo e preme su tutto. Il ricordo lo puoi cancellare, modificare. Il rimpianto rimane, non va mai via, non si copre, non si arrende>>.


Trama

Intorno c’è solo neve. E bianco. La neve copre le cose, le case, le persone. Anzi, alle persone la neve cade dentro e il freddo le circonda ma, soprattutto, si diffonde nelle ossa, negli occhi e nei pensieri. Elia Legasov è nato in un paese circondato dal bianco, e da lì non è mai andato via. Il suo lavoro è spalare la neve, liberare strade su cui nessuno camminerà. La neve è sua amica, fino a quando non lo tradisce. Finché non fa emergere qualcosa dalle sue profondità. Qualcosa che ha a che fare con la sua famiglia e che doveva restare sepolto. Da quel momento, nella mente di Elia si affollano ricordi che aveva soffocato. Parlano di un padre, scomparso tanti anni prima, e di una madre, partita per sempre. Sono parole dolci, gesti delicati, sorrisi sinceri. Ma anche duri come il ghiaccio. E dolorosi. Elia capisce allora che quello che si dice dei membri della sua famiglia è vero: la neve non li protegge, ma li tenta, li provoca, per vedere se sono capaci di dimenticare, perché tutti dimenticano, ma i Legasov ricordano, sempre. Ora è venuto il suo turno di ricordare. Qualunque sia il prezzo. Qualunque cosa venga a galla. Perché è nelle case che il passato nidifica. È nelle famiglie che si riproduce, nei giorni bianchi e nei giorni neri. Perché il dolore crea l’inverno. Ma ogni inverno è diverso da quello precedente e da quello successivo.


Recensione

Dimenticare o ricordare. Matteo Porru, classe 2001, fa oscillare la sua penna tra queste due estremità, tra questi due opposti, che a volte sono una scelta dell’uomo e a volte sono una necessità dettata dall’istinto di sopravvivere ad un passato che annienta.

Dimenticare o ricordare. Accogliere il passato o rifiutarlo. Se ammettiamo che ognuno è frutto di ciò che è stato, di ciò che è sedimentato, strato dopo strato, sulla propria coscienza, allora dimenticare è negare se stessi concedendoci il privilegio di nascere e rinascere infinite volte. E ricordare è portare il peso del passato sulle spalle. Peso o esperienza. In ogni caso qualcosa di immutabile che va digerito e interiorizzato.

La neve è ciò che copre e nasconde. Se vivi nell’estremo nord del mondo, lo sai bene. In quel nulla, fatto di accecante candore, dentro ad una vita schiacciata dalla ripetizione degli eventi e dall’inclemenza degli elementi, la neve cade per nascondere tutto. E si dimentica, nell’intento di provare a sopravvivere. Se stessi, il proprio vuoto, le solitudini che si inerpicano dentro ai cuori, inaridendoli, l’ambiente inospitale in cui persino il cielo cade, certi giorni.

Ma Elia Legasov non può dimenticare. Lui spala la neve, nelle strade desolate di Jievnibirsk.

Toglie uno strato, e un altro. Toglie, elimina e ricorda. Una missione che da sempre investe la sua famiglia. La sua vita è scandita dal “bestione”, che lui guida ogni giorno. E’ solo ormai e gli rimangono solo un paio di amici, anche loro accerchiati dagli urli della solitudine. Vivi senza sapere cosa farsene di una vita che si srotola sempre uguale, chiusa nel riserbo del gelo e dell’inverno artico.

Ma un giorno arriva un gruppo di forestieri. Cercano il petrolio. Si scava e si scopre un corpo sotterrato nella neve.

Lo spettro del passato è inarrestabile. La sua voce scuote la comunità. Spinge per uscire allo scoperto. Cadono le cateratte che tengono fermi i ricordi. Il fragore è assordante. Ciò che rivelerà cambierà ogni cosa per sempre.

Il romanzo di Porru ha echi profondi, che risuonano sulla coltre innevata. Porru descrive un inferno sulla terra che non serba pietà per nessuno. Un luogo che sembra esistere solo per annientare. Un luogo in cui l’uomo è solo con se stesso, a combattere con il presente che schiaccia e i fantasmi che premono per uscire allo scoperto ma sono ibernati sotto lo strato di ghiaccio perenne.

Ma anche in un deserto di bianco gelido e sferzante l’uomo costruisce la sua esistenza sulle scorta della sua storia personale. Impara dall’esperienza, cerca il calore di un abbraccio, tesse una ragnatela di sfuggenti relazioni. Dimentica ma è costretto a ricordare. I segreti che tengono insieme i brandelli di una famiglia e il ricordo indelebile di una pugnalata, che sanguina ancora.

Sono i recessi della coscienza umana quelli che Porro indaga, con una lucida analisi e un disincanto che non ci si aspetta da un ragazzo di poco più di vent’anni. Il resto è una storia vecchia di secoli. Quella che si appoggia sulle scelte dell’uomo riguardo al suo passato: ricordare o dimenticare.

L’ambiente avverso contribuisce a corroborare l’idea di un’esistenza tirata al limite, dove ogni elemento gioca per appesantire lo scorrere del tempo e per far risuonare le grida del passato, indimenticabile ma anche foriero di inaspettati risvolti. Quelli che non si sono conosciuti per scelta e forse era meglio conoscere.


L’autore

A soli diciotto anni, Matteo Porru ha vinto il premio Campiello Giovani. Per la stampa è uno dei venticinque under-25 più promettenti al mondo. Ora arriva in libreria con un romanzo sospeso nel tempo e nello spazio che parla di legami familiari, rimpianti e vissuti indelebili. Un romanzo che ci ricorda che siamo tutti fatti di carne e neve.



  • Casa editrice: Garzanti
  • Genere: narrativa
  • Pagine: 159

MAUD MARTHA di Gwendolyn Brooks

Aveva sempre voluto qualcosa di solido. Una forma lucente, calda, ma dura come la pietra e difficile da scalfire. Voleva creare una sua tradizione, plasmare un insieme di abitudini infallibili per lei,per lui, per la piccola Paulette.


Trama

“Maud Martha è nata nel 1917. È ancora viva”: si apre così l’unico romanzo scritto dalla celebre poetessa Gwendolyn Brooks, la prima afroamericana a vincere il Premio Pulitzer. Un romanzo dalla struttura originalissima, che in 34 fulminanti capitoli racconta tutta la vita della protagonista attraverso un prisma di informazioni minime, rarefatte, poetiche. Maud Martha Brown è una ragazzina cresciuta nel South Side della Chicago degli anni Quaranta. Tra bettole fatiscenti e cortili incolti, sogna New York, un amore romantico, il futuro. Ammira i denti di leone, impara a bere il caffè, si innamora, arreda il suo angolo cottura, sventra un pollo, risparmia un topo, compra cappelli, cerca di vedersi bella, partorisce una bambina. Anche suo marito, che ha la pelle solo un po’ più chiara, ha dei sogni: il Foxy Cat Club, le donne bianche, il mito della guerra. Ma i sogni di Maud Martha e di quelli come lei vengono, immancabilmente, messi alla prova da “brandelli di odio sgomento”: una certa parola di una commessa, quella visita al cinema, la crudeltà di un Babbo Natale nei grandi magazzini. Una realtà inospitale, dura, né bianca né nera, ma fondamentalmente grigia: una realtà in cui, anche se la rassegnazione è la scelta più ovvia, c’è chi, come Maud Martha, trova ancora il modo di non arrendersi, pur di rendere luminosissimo quel grigio. Malgrado tutto. Scritto nel 1953 ma pubblicato ora per la prima volta in Italia, Maud Martha è un mosaico delicato e devastante, capace di trasmettere al lettore il ritratto straordinario di una vita ordinaria, vissuta con saggezza, umorismo, rabbia, dignità e gioia.


Recensione

Maud Martha non è un’eroina, ma una donna che nasce nel 1917 in America e vive la sua vita, con l’occhio attento ad osservare ciò che la circonda e una testa pensante che registra ogni evento, lo analizza e ne trae delle conclusioni.

Maud Martha ha la pelle nera. Molto scura, più scura di tanti suoi coetanei e sicuramente più nera della pelle di Paul, che sposerà, con circospezione, disincanto e una dose di incredulità.

Maud vuole essere amata, fin dalla tenera età. Ma sa di dover combattere una battaglia che durerà quanto la sua vita per sentirsi davvero accettata. Da un lato Helen, la sorella maggiore, che la relega nell’ombra, con la sua bellezza e la sua grazia. Dall’altro il marito stesso, che dopo il matrimonio perde interesse per lei, sicuramente in cerca di una donna dalla pelle più chiara. E anche perchè deluso dalla vita, che lo esclude, come esclude molte persone di colore, dagli ambienti che contano, trattenendolo in luoghi incerti, angusti, in cui non si sente apprezzato.

Maud Martha ha piena percezione che il razzismo è palpabile, presente e incancellabile. Lo vede negli occhi di chi incontra, lo sente nel cuore e lo sente spesso anche con le sue orecchie, costrette a digerire insulti e commenti spiacevoli. Non è insolito che in un luogo Maud Martha si senta osservata. E trova orribile che anche la figlioletta provi fin da subito i graffi del pregiudizio su di sé. Una specie di tumore che si diffonde a macchia d’olio passando dal corpo della madre a quello della bambina, che non ha ancora percezione di cosa sia il mondo e di cosa dovrà affrontare crescendo.

Ma Maud Martha comunque resiste. Senza opporsi platealmente, senza lottare. Maud non grida. La sua ribellione è un tuono sordo ma non per questo meno assordante.

Perché Maud sa muoversi senza ferirsi nei rovi dell’intolleranza e sa meravigliarsi davanti a cose piccole, minuscole, che lei però riesce a vedere e a tradurre in soddisfazione. In fondo la sua vita non è stata così cattiva se lei è riuscita a schivare la tragedia che nasce dalla piccolezza e dalla stupidità umana.

Questo spaccato di vita è una curiosa finestra che si affaccia sugli anni della crescita e della formazione di una giovane donna di colore, che muove i suoi primi passi quasi inconsapevole delle difficoltà che dovrà affrontare ma che piano piano le interiorizza, le fa sue, ne fa un punto di forza. Perchè lei vuole abbracciare la vita senza rinunciare e si sforza di rendere accettabile ogni cosa che le capiti. Senza lamentarsi, raccontando le sie giornate con distacco ma anche con profondità e riflessione.

Certo è che leggere questo romanzo quando fu pubblicato, negli anni 50, deve essere stato tutta un’altra cosa. A quel tempo sì che era un grido quello che premeva dalle pagine, per uscire allo scoperto ed essere ascoltato da tutti. Un grido in sordina, che rompe il silenzio senza scuotere chi ascolta. Perchè non c’è niente di più assordante di una parola forte sussurrata all’orecchio.

Oggi Maud Martha rimane una pagina di meravigliosa prosa, che fa della semplicità la sua forza e che lavora mediante immagini isolate, fresche e piene di meraviglioso sdegno e potentissima critica verso una società che ripudia l’uguale dignità.

Maud Martha esce per la prima volta in Italia. Un’opera imperdibile e una penna assolutamente da conoscere, quella di Gwendolyn Brooks, poetessa aafroamericana, la prima a vincere il Premio Pulitzer per la poesia nel 1950.


L’autrice

Gwendolyn Brooks (1917-2000) è stata una poetessa e scrittrice afroamericana, la prima a vincere il Premio Pulitzer per la poesia. Ha esordito con A Street in Bronzeville, raccolta di poesie pubblicata nel 1945 dalla casa editrice Harper & Row, che ha riscosso un immediato consenso dalla critica e le è valsa la prima Guggenheim Fellowship. Nel 1950 ha pubblicato la sua seconda raccolta, Annie Allen, con la quale ha vinto l’Eunice Tietjens Prize dalla rivista “Poetry” e il Premio Pulitzer.


  • Casa Editrice: La Tartaruga
  • Traduzione: Gioia Guerzoni
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 142

COME D’ARIA di Ada D’Adamo

Io sono il mio corpo, che accumula segni, ferite, cicatrici. Corpo che è il mio sigillo, testo che parla di me. “Nella malattia rivelo tutto il mio essere. Nella malattia mi sviluppo, cresco come un fiore, trovo la mia vera vita” ha scritto Franz Kafka. Il mio corpo mi ispira, mi guida, mi insegna. In lui -qualunque corpo sia- devo credere. Solo se riprendo fiducia nel mio corpo, lo posso esporre ai tuoi assalti. Posso farmi invadere da te, non temere più nulla.


Trama

Daria è la figlia, il cui destino è segnato sin dalla nascita da una mancata diagnosi. Ada è la madre, che sulla soglia dei cinquant’anni scopre di essersi ammalata. Questa scoperta diventa occasione per lei di rivolgersi direttamente alla figlia e raccontarle la loro storia. Tutto passa attraverso i corpi di Ada e Daria: fatiche quotidiane, rabbia, segreti, ma anche gioie inaspettate e momenti di infinita tenerezza. Le parole attraversano il tempo, in un costante intreccio tra passato e presente. Un racconto di straordinaria forza e verità, in cui ogni istante vissuto è offerto al lettore come dono.


Recensione

Il corpo parla infinite lingue. Amore, sorpresa, sofferenza, vicinanza. Nella sua straordinaria chiarezza sa dire ogni cosa. Senza filtri . Senza sbagliare, senza fraintendere.

Ada lo sa. Con il suo corpo ha intessuto un dialogo fitto, autentico. Con il suo corpo sa esprimere ogni cosa. E lo sa ascoltare. Capire ogni sfumatura, accogliere ogni suggerimento.

Anche quando il corpo soffre. Anche quando è malato, esso mantiene questa sua capacità incredibile.

Ada vive con la malattia a fianco. Sua figlia Daria è malata gravemente. Il percorso della sua crescita è stato arduo. Sempre da sola. Sempre in salita. La malattia isola e spaventa. La malattia spesso è incomprensione. Nessuno sa immaginare o immedesimarsi nella fatica di andare avanti contro tutto e tutti. 

E poi anche Ada si ammala. Il suo corpo abituato a danzare, ad accogliere e a sentire, la tradisce.

Attraverso la malattia Ada ripensa alla sua vita, a Daria e alle scelte che non ha potuto fare. Al suo percorso, che Daria ha arricchito. A quello che Daria le ha insegnato, pur senza potersi esprimere a parole.

Ma Ada ripercorre anche le difficoltà che ha incontrato per strada: l’inclusione scolastica, spesso solo una parola, l’innominabilità dell’aborto terapeutico, la legge 194, un baluardo che a volte viene nascosto, celato come una vergogna.

Come D’aria è una storia d’amore. Un amore che non si sottrae davanti alle difficoltà e che accoglie ogni goccia, ogni passo, ogni sguardo in un grembo materno caldo e senza confini.

La storia di Ada e quella di Daria. Che è un cammino tortuoso fatto di cadute e di gioie inaspettate. Il pensiero di cosa è stato e cosa poteva essere. Le cose distrutte e quelle salvate. L’amore che avvolge tutto il male, con la pretesa di poterlo dissolvere.

La prepotenza di un amore che è luce e buio insieme. L’amore che fonde due esseri umani, sovrapponendoli, nella confusione.

Ada e quella forza atavica e inesauribile che è propria della donna. I pesi che le gravano sulle spalle. La responsabilità delle sue scelte, compreso quelle che non ha potuto fare. Quell’occhio che da sempre la scruta, pronto a vederla cedere. Quel suo risolvere sempre tutto. Nel riso come nelle lacrime. Quell’amore che ti porti dentro, pronto ad esplodere e a illuminare.


L’autrice

ADA D’ADAMO. Nata a Ortona, vive e lavora a Roma, dove è diplomata all’Accademia Nazionale di Danza e laureata in Discipline dello Spettacolo. Ha trascorso molto tempo a osservare il corpo e le sue declinazioni sulla scena contemporanea, e lo ha scritto in diversi saggi sulla danza e il teatro.


  • Casa Editrice: Elliot Edizioni
  • Genere: biografia
  • Pagine: 132

LA LIBRERIA DEI GATTI NERI di Piergiorgio Pulixi

“Buongiorno, ce l’avete Sequestro un uomo?”. Nell’udire quella voce, seguita da una risata divertita, Marzio sorrise. Si voltò verso la signora Solinas, l’investigatrice del martedì appassionata di thriller sanguinolenti e gialli nordici. “Te l’hanno mai chiesto storpiato in questo modo?” domandò la simpatica vecchietta. “Non hai idea di quante volte è successo”. “La migliore è stata: “Ce l’ha Sequestro un uomo di Primo Levis?”


Trama

Grande appassionato di gialli, Marzio Montecristo ha aperto da qualche anno nel centro di Cagliari una piccola libreria specializzata in romanzi polizieschi. Il nome della libreria, Les Chats Noirs, è un omaggio ai due gatti neri che un giorno si sono presentati in negozio e non se ne sono più andati, da lui soprannominati Miss Marple e Poirot. Nonostante il brutto carattere del proprietario, la libreria è molto frequentata, ed è Patricia, la giovane collaboratrice di Montecristo, di origini eritree, a salvare i clienti dalle sfuriate del titolare. La libreria ha anche un gruppo di lettura, “gli investigatori del martedì”, un manipolo di super esperti di gialli che si riuniscono dopo la chiusura per discettare del romanzo della settimana. È una banda mal assembrata ma molto unita, di cui Marzio è diventato l’anima, suo malgrado. Un anno prima il gruppo si è dimostrato capace di aiutare una vecchia amica di Montecristo a risolvere un vero caso da tutti considerato senza speranza. Ora la sovrintendente Angela Dimase torna a chiedere la loro collaborazione per un’indagine che le sta togliendo il sonno: un uomo incappucciato si è presentato a casa di una famiglia, ha immobilizzato due coniugi e il loro figlioletto e ha intimato all’uomo di scegliere chi doveva morire tra la moglie e il figlio; se non avesse deciso entro un minuto, li avrebbe uccisi tutti e due. Il sadico killer viene presto soprannominato «l’assassino delle clessidre», visto che sulla scena del crimine ne lascia sempre una. Riusciranno gli improbabili “investigatori del martedì” a sbrogliare anche questo caso, intricato quanto agghiacciante, permettendo alla polizia di fermare il feroce assassino prima che colpisca di nuovo? Pulixi firma un giallo pieno di suspense e ironia che parla di libri e omaggia i classici del mystery, rendendo i lettori i veri protagonisti di questa storia.


Recensione

Aria fresca, personaggi irresistibili, venati di grande realismo e di sottile ironia, un’indagine serrata, un serial killer efferato e il male che seppure crudele e contorto non riesce a sfaldare l’atmosfera soave, lieve, piena di sentimenti positivi, al netto, naturalmente, delle morti che Pulixi racconta e che costituiscono il nucleo del romanzo.

Del resto, in questo romanzo, c’è un insieme di elementi che amo: il mistero, i libri, i gatti.

Posto che il mistero deve rimanere tale, per non sciupare il gusto di chi si approccia alla lettura, Pulixi nel suo romanzo costruisce un vero e proprio omaggio ai libri noir e gialli del nostro recente passato e ai loro autori: Agatha Christie, Simenon, Arthur Conan Doyle, Edgar Allan Poe ma anche Scerbanenco, Connely, Castillo. I gatti, poi, sono molto più che comparse, un po’ perchè appaiono nel titolo del romanzo, un po’ perchè due splendidi gattoni neri sono le impertinenti mascotte della libreria che il protagonista, Marzio Montecristo, gestisce a Cagliari, con tutte le difficoltà di un mercato sempre più falcidiato dalle grandi catene distributive e dall’assottigliarsi del novero degli appassionati della carta.

Insomma, tutto ruota intorno ai libri, e questo ovviamente mi piace!

I libri sono il collante che tiene unito il gruppo di lettori del martedì, amanti del genere giallo e investigatori dilettanti e anche l’ancora che ha tratto in salvo Montecristo, quando ha dovuto abbandonare la carriera di insegnante.

I libri e il loro universo, fatto della memoria delle letture del nostro passato e della curiosità che prende il lettore sottobraccio e lo accompagna verso nuove sfide e avventure.

I libri, questi sconosciuti, per coloro che si avvicinano per la prima volta al loro mondo variegato e caleidoscopico, pur senza avere coscienza e conoscenza (e qui mi riferisco agli aneddoti che Pulixi ci propina nel romanzo, di malcapitati pseudo lettori che storpiano i titoli dei libri o si lanciano in richieste impossibili, strappandomi diversi sorrisi (leggere per credere!).

Pulixi sa come intrattenere il suo pubblico, con un linguaggio sapientemente ironico e popolare, con il quale tratteggia i suoi vividi personaggi. Impossibile non amare Montecristo, sfigato quanto basta, irascibile e sanguigno, senza filtri, sincero e diretto anche quando si tratta di litigare con qualche cliente inconsapevole e sbadato. Impossibile non innamorarsi di ogni personaggio, ognuno così ben caratterizzato da poter sembrare vivo.

Insomma, l’autore confeziona un godibile thriller che poggia su una base ricca e irresistibile, che rende l’esperienza di lettura unica e irripetibile.

Per me un enorme si! Leggete questo libro, diffondetelo e regalatelo a cuor leggero perchè piacerà a tutti. Grandi, piccoli, uomini e donne, amanti del thriller e non solo.

Quando in un libro si muovono persone vere, dentro a storie che ci assomigliano, il successo è automatico.

Grande fascio di luce su di te, Piergiorgio. Hai fatto davvero un ottimo lavoro, ottemperando al primo comandamento dello scrittore: prendere a braccetto il lettore, farlo divertire e condurlo in un altra dimensione, almeno per il lasso di tempo in cui sfoglia le pagine. Incuriosirlo, farlo riflettere e farlo sorridere, spandendo una pioggerellina di ironia su ogni cosa.


L’autore

Piergiorgio Pulixi è nato a Cagliari nel 1982 e vive a Milano. Ha pubblicato diversi romanzi polizieschi con cui ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui il premio Scerbanenco 2019 per il miglior noir dell’anno. È considerato uno dei maggiori esponenti della nuova generazione di scrittori noir e thriller. I suoi romanzi sono tradotti in Francia, Spagna, Germania, Austria, Svizzera, Polonia e Russia.


  • Casa Editrice: Marsilio Editore
  • Genere: thriller
  • Pagine: 304

UN GIORNO DI FESTA di Joyce Maynard

Fu di nuovo uno di quei momenti in cui, per un attimo, appena ti svegli, non ricordi quello che sta succedendo. Aprendo gli occhi nella mia camera dove mancava tutto, impiegai un po’ a capire persino dove mi trovassi. Poi mi tornò in mente tutto quanto.


Trama

A tredici anni, Henry si sente separato dal mondo. Vive con sua madre Adele, una donna bella e triste, che dopo un divorzio difficile si è chiusa in se stessa; ha poche occasioni di svago e nessun amico, finché nel fine settimana del Labor Day un uomo dai vestiti sporchi di sangue lo avvicina al supermercato, chiedendogli aiuto. Si chiama Frank e rivela di essere evaso dall’infermeria del penitenziario, ma nonostante il rischio Henry e Adele non esitano ad accoglierlo in casa con loro. E in pochi, intensissimi giorni, la loro vita cambia radicalmente: Adele riscopre la passione con Frank, che cerca di redimersi da un tragico errore; Henry trova finalmente una figura paterna, con cui imparare a giocare a baseball, a cucinare una torta perfetta, a confrontarsi con la gelosia e l’amore. Così, mentre fuori la polizia dà la caccia a Frank, in casa il tempo sembra scorrere lento, racchiuso nell’intimità di una famiglia ritrovata.

Delicato e avvincente, Un giorno di festa parla di un ragazzo che affronta la difficoltà di crescere, di un pericolo che si trasforma in rinascita, di destini che si intrecciano all’improvviso per un gesto di fiducia. Dopo L’albero della nostra vita, Joyce Maynard tesse una trama perfetta, in cui le vite di tre persone cambiano in un unico, travolgente weekend, aprendosi alla speranza della felicità.


Recensione

La salvezza può assumere tante forme. La salvezza può giungere all’improvviso, in soccorso di qualcosa che va alla deriva.

Qualcosa che non ha a che fare con noi, perché chi ha bisogno di un salvagente, non si salva da solo. Si lascia trasportare dalla corrente. Sballottare dai flutti, lasciando aperta la possibilità di inabissarsi.

Henry e sua madre Adele si trascinano da diversi anni in una simile situazione. Da che il padre di Henry li ha lasciati, Adele è scivolata in un torpore sempre più avvolgente. Non ha più amici, non esce più di casa, non ha un lavoro. Henry ha tredici anni e si rende perfettamente conto che la madre sta ad un passo dalla follia, mentre lui è in continua lotta con il suo corpo, che si sta trasformando, con nuove forme e nuovi inquietanti desideri, che Henry cerca di decifrare e di manovrare a suo favore, per staccarsi di dosso l’etichetta dello sfigato di turno.

Un duo insolito, destinato ad un futuro sempre più cupo e solitario. Finchè un giorno, durante una delle rare visite al centro commerciale, Frank si insinua nella loro vita.

Adele e Henry si lasciano attraversare da questa apparizione e ospitano Frank a casa loro. Frank è evaso dal carcere e ha bisogno di nascondersi per un po’.

Inizia così una convivenza forzata che sin da subito si rivela sorprendente. Frank è gentile e premuroso. Si occupa della casa e dei suoi mesti abitanti, portandovi una ventata di aria fresca, che profuma di occasioni mancate, di possibilità, di muri che si sgretolano, di barriere che cadono e di interesse, di fiducia. Un’apertura improvvisa e salvifica che scuote Adele dal suo sonno e apre ad Henry una breccia nel cuore. All’improvviso l’eco dell’idea di una famiglia felice si affaccia su ognuno di loro, mostrando la tenerezza, la forza e l’ebrezza di essere amato, di avere una spalla cui appoggiarsi. Di non essere più solo, di poter consegnare la propria vita nelle mani di un’altra persona.

Ma ogni piccola felicità ha il suo conto da pagare. E il tarlo del dubbio, della gelosia, della paura inizia a rosicchiare dall’interno.

Fidarsi, abbandonarsi al nuovo, abbracciare l’avventura, lasciarsi tutto alle spalle. Tutto questo può spaventare e indurre nell’errore.

“Un giorno di festa” parla di occasioni perdute e della felicità, una luce accecante e caldissima che illumina e scalda da lontano, ma che da vicino brucia.

E’ quell’altalena che ogni giorno ci culla, portandoci in alto, in un’ascesa estatica e vertiginosa e, subito dopo, trascinandoci al punto di partenza, in basso, dove la banalità di ogni giorno ci schiaccia ma è anche rassicurante.

La felicità è vicina, basta allungare la mano. Ma a volte non lo si fa abbastanza e perdiamo quell’attimo benedetto e salvifico. E allora bisogna aspettare che la felicità passi nuovamente da noi, con pazienza.

E poi passa, prima o poi accade. E allora non vi saranno più dubbi, né timori. Allungheremo la mano, fino a sporgersi sul precipizio, e afferreremo quella felicità che già ci apparteneva ma che abbiamo lasciato andar via.

Joyce Maynard ci ha abituati alla bellezza delle sue trame e alla soavità della sua prosa. Bella, intima, parla sottovoce ma scava gallerie e cunicoli nella nostra memoria. Un romanzo davvero bellissimo, che parla il linguaggio della felicità e della speranza. Un libro che ci esorta a credere nel prossimo e anche in noi stessi. Che ci dice di non chiudere la porta a chiave, ma di lasciarla socchiusa, sempre. Qualcuno varcherà la soglia, prima o poi.


L’autrice

Joyce Maynard è una scrittrice e sceneggiatrice americana, giornalista per il New York Times, Vogue, O, The Oprah Magazine, e The New York Times Magazine. Ha pubblicato diciassette libri, tra cui At Home in the World, che racconta la sua relazione da giovanissima con J.D. Salinger. Il suo romanzo To Die For è diventato il celebre film Da morire, così come Labor Day, di prossima pubblicazione per NNE, è stato portato sul grande schermo da Jason Reitman.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Traduzione: Federica Merani
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 236

MARE DELLA TRANQUILLITA’ di Emily St. John Mandel

Viviamo in una simulazione, mi dissi mentre il tram si fermava a un isolato dal mio appartamento, ma sembrava così lontano… be’, così lontano dalla realtà, non mi veniva parola migliore. Non riuscivo a convincermene. Non ci credevo. C’era una pioggia programmata da lì a – diedi un’occhiata all’orologio – due minuti. Scesi dal tram e mi misi a camminare molto lentamente, di proposito. Avevo sempre amato la pioggia e il fatto di sapere che non veniva dalle nuvole non me la faceva amare di meno.


Trama

Nel 1912 Edwin St. John St. Andrew è un ragazzo di diciotto anni, che sente il peso dell’appartenenza alla nobiltà inglese. Dopo un dissidio con la sua famiglia, attraversa l’Atlantico, per giungere sino in Canada. Qui, incantato dalla bellezza della natura selvaggia, si inoltra in una foresta e, all’improvviso, sente le note di un violino e cade in uno stato di trance. È un’esperienza che lo sconvolge nel profondo e che cambierà per sempre la sua vita.
Nel 2203, una famosa scrittrice di nome Olive Llewellyn è in tour per presentare il suo libro. Sta viaggiando per tutto il pianeta, ma la sua casa è la Colonia Due lunare nei pressi del Mare della Tranquillità, un luogo di pietra bianca, di torri, guglie e di una inquietante bellezza artificiale. Nel suo romanzo più noto c’è una strana scena: un uomo suona il violino nel corridoio di un terminal aeroportuale, mentre gli alberi di una foresta si ergono intorno a lui.
Nel 2403, Gaspery-Jacques Roberts è un detective dell’Istituto del Tempo di Città Notturna, così, successivamente, è stata ribattezzata la Colonia Due. Viene assunto per indagare su un’anomalia spaziotemporale, sul caso di alcune vite sconvolte da una strana apparizione, tra cui quelle di Edwin St. John St. Andrew e Olive Llewellyn.
Emily St. John Mandel dimostra ancora una volta il suo straordinario talento letterario, la sua impetuosa capacità di affabulazione, giocando con le epoche, sfidando le leggi della fisica e raccontando una storia incredibilmente umana, commovente, che rimarrà a lungo nel cuore dei lettori.


Recensione

L’esistenza. Una goccia che in un attimo sfuma sul vetro, mentre piove. Ma anche una fitta, contorta, pullulante foresta. Alberi che svettano nel cielo, viottoli che si inerpicano sui fianchi delle colline, solitari, interminabili, dalla traiettoria sconosciuta. Un brivido di eccitazione e un rivolo di sudore sulla schiena.

La vita è un attimo ed è interminabile. Un attimo, un’eternità. Importantissimo per chi lo vive. E del tutto iniquo per chi la sta a guardare, una vita che appare in tutto e per tutto simile ad altre inutili vite.

Le vite di cui parla Mare della tranquillità appartengono ad individui comuni. Ciò che è eccezionale, inusitato, splendido è l’interconnessione che l’autrice suggerisce tra esistenze appartenenti ad epoche diverse.

L’idea del tempo come un formicaio. Epoche che si srotolano godendo del beneficio della contestualità. Come se solo un debole diaframma dividesse i diversi momenti della storia dell’umanità. E come se, aprendo quel diaframma, potessimo saltare da un secolo all’altro, andando avanti e indietro nella linea del tempo, che mai come in quest’ultima opera di Emily St. John Mandel appare artificiosa. Un’invenzione perniciosa. Un espediente per indurci a pensare a noi stessi come al frutto di un determinato momento, che perderebbe significato se dovessimo isolarlo dall’epoca della nostra vita.

E se davvero il tempo non esistesse, allora non esisterebbe nemmeno la nostra vita. La nostra vita potrebbe essere irreale, fittizia. Nient’altro che una simulazione.

Ad un certo punto il diaframma si rompe e lo sguardo vaga altrove nel tempo. Un’anomalia, che però è sufficiente all’Istituto del Tempo, nell’anno 2403, per indagare. Per scoprire perché nello stesso momento più esistenze appartenenti a tempi diversi si siano potute incontrare.

Un’indagine che può svolgersi solamente attraverso un viaggio nel tempo. A patto che nessuno ne alteri la linea. Perché niente è più pesante e insopportabile di sapere cosa accadrà nel futuro alle persone che abbiamo davanti.

Ed ecco che la genialità e la disarmante poetica dell’autrice ci sovrasta e ci schiaccia. Perché la sua penna è un incanto subdolo e affabulatore. Rovescia i nostri concetti. Distrugge le nostre certezze. Le leggi che regolano il mondo visibile, i nostri schemi mentali, sono inaspettatamente defraudati della loro veridicità. E ci confondiamo, mentre la nostra mente vaga nell’etere, passa velocissima sulla riga del tempo. Assiste ad avvenimenti impossibili e si lascia sedurre da idee eversive, allucinanti, pericolose. E se la nostra vita fosse una simulazione?

Di fatto già da molti decenni la vita si è spostata sulla Luna. Il mare della tranquillità ha accolto la prima colonia. Poi ne è venuta un’altra, che dopo un guasto si è trasformata nella città buia, dove la notte dura a lungo e rende tutto molto irreale. La Terra è lontana, ma si raggiunge in poche ore a bordo di roboanti aeronavi. Dall’alto la Terra è ancora una dea ipnotica e sensualissima. Un’ascesa nel verde e nel blu, che diventa indaco quando si lascia l’atmosfera e si entra nello spazio, nero e insondabile. La vita sulla Luna è artificiale e creata per ingannare l’uomo. L’uomo si lascia ingannare facilmente quando ne va della sua sopravvivenza.

Una simulazione nella simulazione, dunque. Ma pur sempre una vita, preziosa, unica e imprigionata in una capsula del tempo. Se non fosse per quell’anomalia che sembra volerci dire che in fondo siamo tutti legati a doppio filo, attaccati allo stesso cordone ombelicale. Uniti dalla stessa ferocia e dalla stessa pietà.

Mare della tranquillità è un romanzo che incanta e che distrugge. E’ uno spiraglio sul possibile futuro dell’uomo e uno spoiler coraggioso e terribile sul destino delle regole fondamentali della fisica, quelle che ci vogliono prigionieri del tempo e dello spazio e che ci tengono attaccati alla vita, da trascorrere dentro una parentesi delimitata da un inizio e una fine.

Mare della tranquillità è la scoperta di altri insondabili mondi. E un viaggio dentro l’uomo, le sue paure, i suoi limiti, la sua insopprimibile voglia di riparare, correggere, consolare, guarire.

Ed è l’estasi di una scrittura che dona le ali. Che ci innalza sopra il mondo conosciuto, che ci apre gli occhi. Che ci dona coraggio e ci lascia a vagare nella palude del dubbio e dell’oblio.


L’autrice

=4Emily St. John Mandel è autrice di cinque romanzi tra cui Stazione undici, finalista al National Book Award, al PEN/Faulkner Award e da cui è stata tratta una serie televisiva, e L’hotel di cristallo (La nave di Teseo 2021) tradotto in ventitré lingue, selezionato da Barack Obama come uno dei suoi libri preferiti del 2020 e candidato a numerosi premi. Vive a New York.


  • Casa Editrice: La Nave di Teseo
  • Traduzione: Elena Malanga
  • Collana: Oceani
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 253

LA PORTALETTERE di Francesca Giannone

Quanto la divertiva sapere che, alla sua uscita di scena, sarebbero seguiti i consueti commenti. Le sembrava di sentirli, quei due, che malignavano su una femmina che si faceva un goccetto a quell’ora del mattino. “Roba dell’altro mondo” avevano detto una volta.


Trama

Salento, giugno 1934. A Lizzanello, un paesino di poche migliaia di anime, una corriera si ferma nella piazza principale. Ne scende una coppia: lui, Carlo, è un figlio del Sud, ed è felice di essere tornato a casa; lei, Anna, sua moglie, è bella come una statua greca, ma triste e preoccupata: quale vita la attende in quella terra sconosciuta?
Persino a trent’anni da quel giorno, Anna rimarrà per tutti «la forestiera», quella venuta dal Nord, quella diversa, che non va in chiesa, che dice sempre quello che pensa. E Anna, fiera e spigolosa, non si piegherà mai alle leggi non scritte che imprigionano le donne del Sud. Ci riuscirà anche grazie all’amore che la lega al marito, un amore la cui forza sarà dolorosamente chiara al fratello maggiore di Carlo, Antonio, che si è innamorato di Anna nell’istante in cui l’ha vista.
Poi, nel 1935, Anna fa qualcosa di davvero rivoluzionario: si presenta a un concorso delle Poste, lo vince e diventa la prima portalettere di Lizzanello. La notizia fa storcere il naso alle donne e suscita risatine di scherno negli uomini. «Non durerà», maligna qualcuno.
E invece, per oltre vent’anni, Anna diventerà il filo invisibile che unisce gli abitanti del paese. Prima a piedi e poi in bicicletta, consegnerà le lettere dei ragazzi al fronte, le cartoline degli emigranti, le missive degli amanti segreti. Senza volerlo – ma soprattutto senza che il paese lo voglia – la portalettere cambierà molte cose, a Lizzanello.
Quella di Anna è la storia di una donna che ha voluto vivere la propria vita senza condizionamenti, ma è anche la storia della famiglia Greco e di Lizzanello, dagli anni ’30 fino agli anni ’50, passando per una guerra mondiale e per le istanze femministe.
Ed è la storia di due fratelli inseparabili, destinati ad amare la stessa donna.


Recensione

Un esordio così non capita tutti i giorni.

Francesca Giannone, esordiente assoluta al netto della pubblicazione di alcuni racconti su diverse riviste letterarie, riesce nell’intento di regalare ai lettori un’opera ricca, emozionante, dove i personaggi si muovono con grande naturalezza, a disegnare una trama che non si dimentica, frutto della memoria, della lotta, della distruzione e dell’estasi dell’amore, dell’amicizia che supera le barriere, della potenza dei legami di sangue e dell’appartenenza, un filo invisibile che non si spezza.

Una prosa bella, amalgamante, che avvolge in una coperta morbida senza invitarti al riposo. Lasciandoti teneramente all’erta, con il desiderio di entrare ancora più a fondo in una storia che racconta inevitabilmente anche un pezzo di noi stessi.

Siamo negli anni 30, in Salento. Una piccola comunità quella di Lizzanello, dove tutti si conoscono.

Carlo Greco e la moglie Anna Allavena, ligure di nascita, vi fanno ritorno. Lui reduce dall’esperienza dell’emigrazione, lei in qualche modo costretta ad andare al Sud, per seguire il marito. Per Anna non sarà facile integrarsi. Per tutti sarà e rimarrà sempre “la forestiera”. Perché dice ciò che pensa. Perché fa ciò che le piace fare. Perché osa pensare con la sua testa, andando contro i pregiudizi. Anna è prigioniera di abitudini che non capisce e di una lingua che le appare incomprensibile.

Antonio, l’amato fratello di Carlo e Agata, sua moglie, cercano di starle vicino. Antonio sente immediatamente una comunanza fortissima con Anna, che non tarderà a svelare la sua vera natura. Le offrirà sempre comprensione e complicità. Agata non riuscirà nell’intento, schiacciata dai luoghi comuni di una mentalità ancora arcaica.

Il distacco con la gente di Lizzanello si fa enorme quando Anna diventa portalettere. Un mestiere da uomo, che nessuna donna ha mai svolto. Un mestiere che Anna eserciterà con dedizione assoluta, riuscendo a poco a poco a spianare le asperità e le incomprensioni con la gente del posto.

La storia di Anna e di Lizzanello si dipana fino agli anni 50, passando per la guerra e per le istanze che gridano al cambiamento. Intorno a lei le nuove generazioni coglieranno le opportunità e lotteranno per affermare o difendere il proprio posto, nei luoghi e nel cuore di chi amano.

L’Italia della rinascita, del boom economico lambisce anche il Salento, eppure lascia immutati certi atteggiamenti e soprattutto i sentimenti forti, quelli che uniscono o che dividono, incalzati inevitabilmente dalla forza dei legami di sangue, che non sottostanno alla menzogna o all’indifferenza.

Anna è una figura indimenticabile. Una donna che osa segnare una strada mai battuta. Che capisce il valore delle donne, una ricchezza che non dipende da chi sta loro accanto, ma che nasce delle loro capacità, dalla loro forza e della loro consapevolezza. Dal coraggio di cambiare, dalla volontà di non abbassare lo sguardo. Sfidando le leggi non scritte che soffocano come catene. I pregiudizi e le credenze, che ingabbiano le donne del sud.

La portalettere è un romanzo che farà molto parlare di sé. Bello e coinvolgente. Una lettura che riesce ad interpretare al meglio il ruolo del romanzo come mezzo di intrattenimento, come motore della memoria, come fonte cristallina e fresca di riflessione e di ripensamento. Un tuffo nel passato, una rilettura della storia delle donne che lancia un fascio di luce sul presente, sempre bisognoso di un gancio che lo intrattenga verso ciò che è stato. Per poter vedere con maggiore chiarezza ciò che potrà essere o che sarà.

I miei complimenti all’autrice, chiara interprete della necessità del lettore di ritrovare le proprie radici, alla ricerca di un sentimento di appartenenza e di un motivo per ripensare al passato, per ripercorre la strada aspra e erta che ci ha portati fin qui.


L’autrice

Francesca Giannone, pugliese, si è laureata in Scienze della Comunicazione e ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia. Trasferitasi a Bologna, ha curato la catalogazione dei trentamila volumi della Associazione Luigi Bernardi e ha frequentato il corso biennale di scrittura della Bottega di Narrazione «Finzioni». Ha pubblicato vari racconti su riviste letterarie, sia cartacee sia online. Tornata a vivere a Lizzanello, il suo paese di origine in Salento, ha continuato a scrivere e a coltivare l’altra sua grande passione, la pittura; come si può vedere nel suo sito francescagiannoneart.com, il suo soggetto d’elezione sono le donne.


  • Casa Editrice: Editrice Nord
  • Genere: narrativa italiana
  • Pagine: 414

L’IMPOSTORE di Martin Griffin

Raccontare per primo la tua storia non la rende per questo più vera.


Trama

Per Remie Yorke questo è l’ultimo turno al Mackinnon Hotel prima della chiusura invernale. L’indomani potrà finalmente lasciare la Scozia e godersi il tepore di Santiago del Cile. Sempre che la tempesta di neve non blocchi ogni collegamento col mondo esterno… Mentre le temperature precipitano e le linee telefoniche si interrompono, un uomo ferito chiede rifugio. Si tratta dell’agente Don Gaines, rimasto coinvolto in un terribile incidente. L’unico altro sopravvissuto? Il detenuto che la sua squadra stava trasportando. Bisogna isolare l’hotel, controllare ogni via di uscita e mettere in sicurezza gli unici due ospiti dell’albergo. Remie non capisce esattamente cosa stia succedendo, nonostante ciò l’unica cosa che può fare è mettersi a disposizione di quell’uomo; in fin dei conti è un poliziotto. Ma poco dopo arriva un secondo sconosciuto: anche lui è ferito e anche lui dichiara di essere Don Gaines. Stessa uniforme, stesso nome, stesso tesserino. Qualcuno sta mentendo e Remie, senza alcuna via di fuga, dovrà scoprire chi dei due sta dicendo la verità prima che sia troppo tardi. Perché se non la ucciderà il freddo, lo farà uno di loro… Un thriller al cardiopalma ambientato nelle aspre Highlands scozzesi. Un esordio brillante e avvincente nella migliore tradizione del giallo, da Daphne du Maurier a Tana French, da Stephen King a Lucy Foley.


Recensione

Un thriller che si consuma nello spazio di una notte e che ha tutte le carte in regola per atterrire il lettore solleticando le sue paure ataviche. La natura, imbizzarrita e incontrollabile, una forza inesauribile che sa come ridurre l’uomo ai minimi termini.. E gli abbagli della mente, gli inganni della nostra coscienza, che si appiglia spesso a falsi segnali, pur di vedere dipinto un quadro che sia rassicurante.

Il talento di Martin Griffin, al suo esordio, sta proprio nella capacità di accostare magistralmente questi due temi, dando vita ad un romanzo vivo, crudele, ammaliatore, dato alla luce all’esatto scopo di produrre in chi legge il brivido dell’inatteso e dell’inattendibile.

Facile per chi legge mettersi nei panni di Remie Yorke, una trentenne che nella vita ha combinato poco o niente, una vita spesa a proteggere il fratello minore dalle insidie che lo hanno allontanato a poco a poco dalla scuola, dalla famiglia, dai valori veri, inghiottendolo dentro all’infido imbuto della malavita organizzata.

Remie ha speso tutte le sue energie per raddrizzare la vita del fratello Cam, senza riuscirci. Lui adesso è morto. Ha perso la vita in carcere, in modo misterioso.

E’ solo per lui che Remie fa il portiere notturno al Mackinnon Hotel, nelle Highlands scossezi. Un luogo isolato, non scevro di quella bellezza aspra e selvaggia che caratterizza il territorio in cui sorge, proprio vicino al carcere. Ma ora che suo fratello non c’è più, Remie ha deciso di lasciare quel lavoro per andare in Cile, a inseguire i sogni infranti di Cam.

Stanotte è la sua ultima notte al Mackinnon Hotel. Domattina salirà in macchina diretta all’aeroporto. L’albergo è vuoto. Tutto il personale se n’è andato, e tornerà solo in primavera, quando l’albergo aprirà di nuovo.

Ma quella notte accadrà l’inatteso. Un ospite busserà alla porta in cerca d’aiuto dopo un incidente. E, poco dopo, un altro ospite suonerà il campanello. Entrambi indossano la divisa della polizia, entrambi dicono di essere lo stesso uomo, l’agente Gaines. Ma è subito chiaro che solo uno di loro è chi dice di essere. L’altro è un feroce assassino, in fuga dal carcere.

“L’impostore” è un thriller decisamente ad alta tensione. Buio, claustrofobico, scritto per distruggere ogni certezza del lettore, che non saprà più affidarsi alla propria razionalità per trovare il bandolo della matassa.

I labirinti che ottenebrano la mente umana, che confondono i nostri preconcetti e le nostre fondamenta razionali, si fondono con le urla della natura selvaggia, che detta legge e sottomette tutto e tutti. Sullo sfondo l’eco di ricordi dolorosi, di attimi che non potranno più tornare, di legami che si spezzano e che fanno male.

Una notte lunga, pericolosa, infida e piena di sorprese, metterà alla prova Remie e si aprirà verso prospettive inattese. E noi, con lei, traffitti da brividi di freddo e di paura, proveremo a scoprire chi è l’impostore e cosa vuole davvero.

Un’ottima prova per Griffin, che dimostra di saper ammaestrare le paure più subdole dell’uomo e di farne materia per un’esperienza di lettura a tutto tondo.

Un romanzo da leggere davanti al fuoco con una tazza di buon thé in mano. Per combattere il freddo della neve che scende copiosa e turbinante e di quel brivido lungo la schiena che non vuole andarsene.


L’autore

Martin Griffin è al suo entusiasmante esordio nella narrativa poliziesca. Prima di dedicarsi alla scrittura, ha svolto diversi lavori, tra cui quello di vicepreside. Vive a Manchester con la moglie e la figlia.


  • Casa Editrice: Giunti Editore
  • Traduzione: Adria Tissoni
  • Genere: thriller
  • Pagine: 287
  • in libreria dal 4 gennaio 2023

LA MASCHERA DI MARMO di Jean-Christophe Grangé

“Non preoccuparti. Lo prenderemo. E’ solo che non siamo abituati a cercare i veri colpevoli”. Aveva ragione; non erano agenti né investigatori. Erano persecutori, carnefici autodidatti che sapevano solo sfondare porte e tirare per i capelli i sospettati che venivano serviti loro su un vassoio. Questa volta era diverso. Avevano a che fare con un vero criminale. Un predatore che, a sua volta, sapeva come sfuggire agli inseguitori.


Trama

Germania, fine anni Trenta. I corpi senza vita delle mogli di due gerarchi nazisti vengono ritrovati tra le luci sfavillanti di una Berlino mondana, inconsapevole della guerra imminente. Le indagini sono affidate al brutale e spietato ispettore Franz Beewen. L’alto ufficiale della Gestapo si mette subito all’opera e segue i primi indizi, che lo conducono nello studio di Simon Kraus, uno psicanalista specializzato nell’interpretazione dei sogni. Potrebbe essere lui ad avere la chiave per capire chi sia l’assassino. Le vittime erano sue pazienti, ed erano entrambe tormentate dall’incubo di essere inseguite da un uomo con il volto coperto da una maschera di marmo. Una figura che per Kraus è la personificazione di paure e traumi, ma che, alla luce dei fatti, potrebbe essere più reale di quanto si immagini. C’è qualcuno, però, che ostacola Beewen e Kraus nel cammino verso la verità. E non è solo l’assassino. Perché i due stanno cercando risposte proprio là dove il partito nazista nasconde i suoi segreti più torbidi e inconfessabili. Ma non si fermeranno davanti a nulla. Anche se questo vorrà dire mettere in dubbio i valori della patria.
Ogni romanzo di Jean-Christophe Grangé conquista il podio delle classifiche francesi. Con il bestseller I fiumi di porpora ha ottenuto il successo internazionale, confermato anche in Italia dove i suoi libri hanno venduto oltre 350.000 copie. Nella Maschera di marmo, Grangé torna con una trama avvincente e l’ambientazione originale e conturbante della Germania nazista. Un thriller cinematografico che sorprende a ogni pagina, come sa fare solo un vero maestro della suspense.


Recensione

Jean-Christophe Grangé non è certo un autore al quale manchino la stoffa e il coraggio di ambientare un thriller in un periodo storico complicato e dalle mille sfaccettature. Grangé ha talento da vendere, ha una penna prolifica e profonda e quella fantasia sfacciata e tentacolare che gli ha permesso di confezionare molti capolavori di genere, successi mondiali che tuttavia, a mio avviso, non hanno trovato il meritato riscontro in Italia.

Personalmente amo la sua penna. Precisa, affilata, mai superficiale, bensì prodiga di frequentissime incursioni dentro la psicologia umana, della quale sa interpretare ogni movimento e ogni movente.

Grangé non è quel tipo di autore che affida al sangue le sue sfide. Al contrario, Grangè ha dalla sua la capacità di costruire trame di ampissimo respiro, dove il thriller è un po’ una comparsa. Non il motore principale dell’opera. Bensì un particolare, che incidentalmente muove i suoi personaggi alla ricerca di un colpevole. Ma dentro alla trama c’è sempre altro e questo ulteriore elemento è proprio lo studio della mente umana. Delle sue aberrazioni, dei sui tormenti, delle sue mire. Elementi che arrivano, in qualche modo, a spingere qualcuno alla prevaricazione, alla violenza.

Un preambolo doveroso, a mio avviso, per farvi capire che quando si parla di un romanzo di Grangé si è costretti ad entrare nella storia con tutte e due le gambe e occorre tenersi pronti ad affondarvi fino al collo. La trama vi prenderà in un abbraccio morbido e pericoloso e vi costringerà a scendere a patti con le vostre paure, i vostri desideri più intimi, pronti a dover ammettere che ognuno di noi può ritrovarsi in balia di sentimenti ambigui, subdoli, avversi, tali da spingere la nostra mente al limite di ogni legittimo pensiero.

Ma veniamo a questo romanzo. Siamo in Germania, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Hitler ha in pugno le sorti di una nazione che desidera sopra ogni cosa prendersi una rivincita, dopo la bruciante sconfitta del primo conflitto mondiale. La Germania rivendica un posto in prima fila nel mondo, un posto che ritiene gli spetti di diritto. Il popolo germanico deve essere all’altezza di questo compito, a costo di ripulirlo dai rami secchi, dai pesi morti, rendendolo forte, inattaccabile, geneticamente perfetto.

Ma il popolo ha paura. La guerra incombe, le milizie hitleriane diffondono terrore e incertezza. La violenza, la prevaricazione sembrano coinvolgere tutti, nessuno escluso. Persino chi opera al servizio delle S.S, della Gestapo, a volte vacilla al pensiero di quella violenza della quale è spesso artefice e del terrore che serpeggia tra la gente.

In questo clima di profonda incertezza alcune mogli di potenti gerarchi nazisti iniziano a morire. Morti violente, per mano di un fantomatico uomo mascherato. Morti scomode, che arrivano a colpire ai fianchi i vertici del potere e a mettere in qualche modo in dubbio la sua legittimità, che da un lato attrae come miele per le api ma dall’altro terrorizza chiunque vi si avvicini, proprio perché non ha limite né remore.

Dall’altra parte della barricata troviamo tre personaggi che non potrebbero essere più diversi tra loro. Un agente della Gestapo, arruolatosi per obbedire ad un vago senso di rivincita, ma che non sa riconoscersi a pieno nel ruolo del cattivo. Uno psicologo dal passato dubbio e dal presente decisamente fuori dalle righe. Una nobile caduta in disgrazia, che si è votata al servizio dei deboli e dei malati. Tre personaggi incredibili, veri, caratterizzati alla perfezione, ognuno dei quali incarna un pezzetto dello spirito tedesco dell’epoca, che Grangè racconta con grande partecipazione emotiva e enorme rispetto della verità storica, cogliendo ciò che non è sempre possibile cogliere in un libro di Storia.

Intorno a loro una Berlino ormai priva di speranza, che si china sotto il peso della guerra, persa in un destino del quale non si sanno più riconoscere i confini, le logiche e gli intenti.

La Storia di quel periodo si erge a enorme protagonista di questo romanzo e Grangé si rivela un burattinaio impeccabile, abile nel saper interpretare non solo gli eventi storici ma anche gli intimi pensieri della popolazione di allora, quale che sia il suo rango.

Una storia che già conosciamo ma che vale la pena rivedere e riconsiderare, nelle sue sfaccettature più intime. Grangè costruisce un vero capolavoro storico, che descrive con acume, imparzialità e grande trasporto emotivo.

Un thriller corposo, dunque, che non si legge certo nello spazio di una notte, ma che tuttavia scivolerà velocemente tra le dita del lettore, complice la scrittura coinvolgente e la costante curiosità che l’autore instilla nel lettore.

Una lettura consigliatissima per gli amanti della storia recente, ma anche meravigliosamente confezionata per chi ama cogliere nel thriller le eco dei tasti che muovono l’animo umano e che lo rendono artefice o succube del proprio destino.


L’autore

Jean-Christophe Grangé è autore di romanzi di grandissimo successo che hanno ampliato i confini del thriller tradizionale. I suoi libri, tradotti in tutto il mondo e venduti in milioni di copie, sono pubblicati in Italia da Garzanti. Spesso sono stati portati sul grande schermo, e I fiumi di porpora ha vinto il premio Grinzane Cinema 2007 per il miglior libro da cui è stato tratto un film.


  • Casa Editrice: Garzanti
  • Traduzione: Doriana Comerlati e Giuseppe Maugeri
  • Genere: thriller
  • Pagine: 713