PULITA di Alia Trabucco Zeran


Pulita - librinellaria

Oltre la porta a vetri, oltre la cucina, il sole faceva capolino dietro gli oggetti, delineandone i contorni. Chiusi gli occhi. Avevo un fischio acuto e intermittente nelle orecchie. Le tempie mi pulsavano. Mi stava venendo il mal di testa. Per un attimo, dubitai. Proprio come avevo dubitato il primo giorno, quando ero arrivata in quella casa, di nuovo lo stesso dubbio. Non sapevo se quella nottata c’era stata davvero; se era tutto reale. Mi sedetti sul bordo del letto e guardai fisso la luce che filtrava attraverso il vetro smerigliato. Allora mi venne un’idea stranissima, ma più reale che aver lavato e asciugato ogni singola forchetta della casa, anche più reale del contatto con la stoffa della divisa sotto i polpastrelli. Pensai che io, cioè, quella donna seduta sul letto, vivevo solo provvisoriamente. Questo fu ciò che pensai. Come in un film che prima o poi sarebbe finito, e dopo avrei avuto davanti, immensa e luminosa, la vera realtà.


6 maggio 2024

Estela e l’eterna dicotomia tra realtà e immaginario, tra oro e fango.


Una confessione. Il racconto in prima persona di una morte senza senso. Sullo sfondo della dilaniante scriminatura che divide la società tra chi dispone di denari e opportunità e chi invece subisce la povertà profonda, quella che mercifica l’uomo.

Un tema attualissimo, condotto dall’autrice con enorme sensibilità e grande senso della realtà. Da leggere e assorbire con attenzione, specie se chi legge appartiene allo schieramento dei fortunati abitanti della parte giusta del mondo.

La scrittura di Alia Trabucco Zeran è fresca, efficace, rotonda. Un piacere leggerla. Una lettura che porta il lettore là dove vuole l’autrice, dentro la casa di un medico e di un’avvocata cileni e soprattutto, dentro la mente e il vissuto di Estela, la loro domestica a tempo pieno.

Estela appartiene a quella frangia di persone che lascia la propria casa in cerca di fortuna, La sua casa è al sud, in campagna. Una vita dura, comandata dai capricci del tempo e dall’indigenza, che costringe le persone ad accettare lavori duri, mal pagati, in condizioni quasi disumane. La sua casa è piccola, fredda. Qualsiasi soffio di vento sembra volersela portare via. Estela è sempre sola; la madre lavora tutto il giorno e torna a casa distrutta. Eppure quella è un’esistenza che la madre non sa condannare. Tanto da cercare di dissuadere la figlia quando questa manifesta l’idea di andare in città a servizio. Lei sa che una volta indossata quella divisa non si torna più indietro. Come se ogni cosa trattenesse la domestica dentro quelle mura che la imprigionano, uno su tutto l’affezione che gioco forza la domestica sviluppa verso la famiglia che serve.

Estella non ha nessuna esperienza come domestica e si getta a capofitto nel suo lavoro. Dopo la nascita di Julia, Estella diventa la sua tata. Julia è una bimba inquieta, bizzosa, bisognosa di attenzione. I suoi genitori sembrano ossessionati solo dai risultati che Julia dovrà raggiungere, riempiendo la piccola vita della figlia di impegni e esasperandola con il peso di mille aspettative.

Il tempo corre veloce. Estela a volte vive dentro ad una bolla irreale. La sua è una condizione quasi patologica, indotta dalle situazioni che vive ogni giorno. La sua figura compenetra la vita intima dei coniugi della quale conosce ogni piega e ogni segreto. Il loro correre quotidiano, il lavoro che assorbe entrambi più del necessario, l’intransigenza verso la figlia, l’incapacità di comprendere la sua essenza e il suo bisogno di appartenere all’infanzia. Estela è come spezzata in due: da un lato ha tutto il necessario. Dall’altro le manca tutto ciò che conta. Ha nostalgia della madre e sente su di sé la pressione del suo ruolo, che prevede solo perfezi0ne e nessun errore. La nostalgia è un pungolo, eppure quando ha l’occasione di tornare a casa, anche solo per una visita, rinuncia sistematicamente. Perchè teme di non tornare indietro e farlo significherebbe dare ragione a sua madre.

Dalle pagine di prosa finissima e abbacinante Estella esce allo scoperto come una creatura di profonda saggezza e di acutissima sensibilità. E’ capace di cogliere ogni sfumatura del ruolo che deve interpretare tra le mura domestiche. E’ critica verso il modo di vivere dei suoi padroni del quale sa cogliere ogni stortura. Intuisce il verme che da dentro divora la piccola vita di Julia, alla ricerca spasmodica di attenzione e affetto. E assiste inerme al naufragio di quella famiglia, perduta dentro logiche inconsistenti, cieca e completamente disorientata dalle istanze della società e dalla necessità di sviluppare un background sano per la figlia. Un mondo dorato che esiste anche grazie ai gesti ripetuti di chi rimane ai margini, pronto a pulire ogni macchia e a sopportare l’umiliazione di sentirsi disprezzati eppure al tempo stesso indispensabili.

Estela si sente inerme, sopraffatta e disarmata da sdoppiarsi tra la donna che spicca il volo e si allontana da uno scenario perverso e quella che rimane tra quelle mura, intrappolata nelle sue mansioni giornaliere, nelle iniquità dei suoi metodi e nei segreti che le consentono di rimanere a galla. Ma nonostante ciò Estela è un personaggio incredibilmente profondo, una donna che lotta con una realtà che non condivide al solo scopo di mantenersi salda di corpo e di mente.

La morte aleggia costantemente nel racconto di Estela. Perché già dalle prime pagine sappiano che Julia morirà e che Estela in qualche modo è coinvolta. Con questo incipit ad alta intensità drammatica, il racconto di Estela si snoda tra i brevi capitoli. Un racconto che è al tempo stesso il preciso resoconto delle sua giornate di lavoro e il vibrante abbaglio delle dinamiche familiari di cui è testimone che inducono in lei un sentimento di straniamento e di sorda ribellione.

Un romanzo bellissimo, denso di una scrittura indimenticabile, specchio perfetto di questo mondo crudelmente dicotomico del cui rimbombo non siamo mai pienamente consapevoli.

Una tensione narrativa palpabile e una voce nuova, brillante e grave, interprete senza sbavatura alcuna di una società in corsa verso il baratro.


Il romanzo

Estela ha passato sette anni in quella casa, con quella famiglia. Sette anni come domestica a tempo pieno: lavare, pulire, preparare da mangiare, occuparsi della bambina, la piccola Julia. Ora Julia è morta e tocca a lei – la domestica, la tata – dare la propria versione della storia. Raccontare per esempio di come ha lasciato la vita in provincia per tentare la fortuna a Santiago, di come ha lasciato sua madre; raccontare della stanza sul retro dove ha dormito per tutto questo tempo, quella senza finestre; raccontare della bambina, delle unghie rosicchiate, delle pellicine sanguinanti; raccontare il disgusto e insieme l’affetto per i suoi datori di lavoro, le umiliazioni costanti; raccontare dei panni puliti, dei denti puliti, della faccia pulita; raccontare di Carlos, della cagnolina randagia, del veleno, della pistola.

Alia Trabucco Zerán ha scritto un romanzo sui conflitti di classe, il denaro, la famiglia, la rabbia. Una storia in cui la tensione cresce a ogni pagina per portarci a un finale inevitabile e potentissimo, che mostra come una semplice vita di routine, per chi non ha voce, può trasformarsi in un incubo. Forse, come dice Estela: «Ci sono molti modi di parlare. La voce è solo il più semplice».


L’autrice

Alia Trabucco Zerán (1983) è una scrittrice e saggista cilena. Dopo un master in scrittura creativa alla NYU, si è dottorata in letteratura latinoamericana presso lo University College di Londra. Il suo primo romanzo, La sottrazione (SUR, 2020), selezionato come miglior esordio dal Consejo Nacional de Chile e da Babelia – El País, è stato finalista al Booker International Prize. Nel 2022 ha ricevuto il Premio Anna Seghers per la sua carriera letteraria, e il Premio della British Academy per il suo libro di non fiction Las homicidasPulita è il suo ultimo romanzo ed è in corso di traduzione in quindici paesi.

ANNA O di Matthew Blake


Anna O librinellaria

Ricordo come sono iniziati gli episodi in passato. Lentamente, con cautela, poi l’esplosione. Il mio corpo ha bisogno di sonno. La mia mente lo teme. Il sonno è l’ora delle streghe. l regno dell’Es, dell’animale, dell’inconscio. La mia mente mi spaventa. Morire di sonno. Lo desidero.


24 aprile 2024

Dentro alla foresta, gli spettri del sonno muovono la tua mano.


Nel mondo greco Hypnos è il Dio del sonno e Thanatos, suo fratello gemello, è il Dio della morte. Entrambi risiedono negli inferi, affamati di sole.

Il sonno e la morte sono sempre andati per mano, dalla notte dei tempi fino ai giorni nostri. Il sonno, la perdita di coscienza, il territorio inesplorato dei sogni e degli incubi, la sede dell’inconscio freudiano, il deserto in cui l’uomo si perde e perde coscienza di sé. Affascinante, sconosciuto, spaventoso, il sonno ha in sé quell’appeal che sconcerta. Il sonno fa abbassare ogni nostra difesa e ci consegna, inermi, alle sensazioni e ai ricordi. Alle eco del passato e alle aspettative sul futuro mentre il presente si fa da parte per lasciare campo libero all’immaginario.

Matthew Blake trova la chiave di volta per il suo primo romanzo nel territorio sconfinato legato al sonno e riesce a confezionare un prodotto ad alta intensità di lettura, accattivante, originale, capace di catturare l’attenzione fino al parossismo.

Il core del romanzo è un interrogativo non semplice da sviscerare: chi compie un crimine durante il sonno è perseguibile dalla legge? Come si pongono l’un l’altro i temi del sonnambulismo e della responsabilità penale?

Benedict Prince è uno psicologo forense esperto dei crimini legati al sonno e si è occupato, quattro anni prima, di un caso complesso e agghiacciante: Anna Ogilvy, allora 25enne, uccise a sangue freddo i due suoi migliori amici mentre dormiva. Dopo l’accaduto, la stessa Anna cadde in un sonno letargico dal quale, oggi, non si è ancora svegliata. Per Ben il sonno di Anna è da ascriversi alla sindrome della rassegnazione, un torpore nel quale il corpo e la mente si rifugiano per fuggire da fatti inaffrontabili e da una situazione inappellabile. Un disturbo funzionale che non può essere spiegato con la medicina tradizionale. Un trauma enorme che si trascina su se stesso senza soluzione se non il sonno eterno.

Da qui parte la trama di questo romanzo concentrico che dal suo nucleo si propaga abbracciando chiunque sia coinvolto. La famiglia di Anna, in primis, composta da un padre fedifrago e da una madre assente, con una carriera politica avviata, motore di ogni sua scelta, anche di quelle più discutibili. Una carriera che sovrasta ogni altra cosa, senza limiti né eccezioni, compreso il bene dei figli.

Il sonnambulismo, che fin dalla tenera età schiaccia Anna in uno spazio angusto, in cui la paura trabocca senza sosta. Cosa potrebbe essere capace di fare Anna quando vaga perduta dentro al suo sonno cattivo? E Anna, è davvero una giovane donna realizzata o cova una irrazionale voglia di riscatto?

Ben stesso, che ha visto il suo matrimonio rompersi proprio a causa dei fatti che coinvolsero Anna quattro anni fa. E che non riesce a staccarsi da quei fatti tanto da accettare di provare a risvegliare Anna, per consentire allo Stato di processarla per omicidio. Assumendosi il rischio di toccare nervi scoperti e agitare acque già troppo torbide.

Il romanzo coinvolge i personaggi a più riprese, dando alternativamente loro lo scettro della narrazione. Ognuno paleserà la propria versione dei fatti in una lotta contro il tempo e contro la morte. Personaggi misteriosi, fatti di cronaca agghiaccianti, moderne Medea che cadono vittime di esperimenti aberranti, diari segreti, dubbi amletici e una foresta carica di mistero, simbolo delle paure dell’infanzia, quelle mai superate ed elaborate.

Chi ha ucciso Indira e Douglas? Chi è veramente Anna O? La bella addormentata che usa il sonno eterno per fuggire alle sua responsabilità penali? O la vittima di un sistema aberrante che vuole punirla per un crimine che potrebbe aver commesso senza rendersene conto? E l’insospettabile e illuminato Ben, professionista che lavora sul labile confine tra medicina e magia, che ruolo ha avuto in questa storia?

I dubbi sono castelli dalle torri sempre più alte e traballanti. I misteri che ci trascinano sui fondali dell’incoscienza sono sempre più spessi e insopportabili. La lettura diventa ossessione. Le pagine macigni sulle nostre teste. E il sonno cessa di essere riparo e ristoro per diventare un luogo pieno di mostri in cui ognuno recita un ruolo diverso, sconosciuto e spaventoso, mentre aleggia un solo interrogativo: “di cosa potresti essere capace mentre stai dormendo”?

Anna O è un thriller travolgente che instillerà in te un lieve rivolo di terrore. Che risveglierà le tue paure più recondite e che ti schiaccerà con i suoi dubbi e le sue domande.

Un esperimento davvero riuscito per questo autore esordiente, che ha saputo utilizzare le sue morbosità verso il mistero insondabile del sonno per confezionare un romanzo originale, agghiacciante e sicuramente indimenticabile. Mai visto prima d’ora che un mezzo migliaio di pagine chiuse in un mattoncino di quasi un chilogrammo voli come piuma al vento dispensando brividi e insonnia. Soprattutto quest’ultima, naturalmente.


Il romanzo

Anna Ogilvy è una scrittrice venticinquenne di talento, ha fondato da poco un suo giornale, proviene da una famiglia importante e ha un brillante futuro davanti a sé. Una notte, però, durante il sonno, pugnala a morte i suoi due migliori amici e, da quel momento, non si risveglia più. È stata colpita da quella che i neurologi chiamano “sindrome della rassegnazione”, un rarissimo disturbo psicosomatico che la induce in uno stato di sonno perenne. Sono passati quattro anni da quella terribile notte quando il dottor Benedict Prince, uno psicologo forense esperto nel campo dei crimini legati al sonno, viene incaricato di indagare sul caso di Anna O, la “Bella Addormentata”, come i tabloid l’hanno ribattezzata. I suoi studi e i suoi metodi sembrano essere l’ultima speranza di risolvere il caso, svegliando l’assassina per far sì che possa essere finalmente processata. Ma la situazione in cui si trova Benedict è molto più complicata: altre persone sono coinvolte nella vicenda e non sono affatto felici del compito che è stato assegnato al dottore. Lui, a sua volta, è un uomo dal passato turbolento e costellato di misteri. Mentre lavora con Anna cercando di svegliarla, Benedict dovrà anche capire cosa è realmente accaduto e se è giusto ritenerla responsabile dei suoi crimini. Non sa, però, del pericolo che incombe su di lui e sulla sua paziente, e nemmeno immagina la portata dei segreti che si celano dietro al caso Anna O.

Con un esordio sorprendente, che è diventato un caso editoriale globale in corso di traduzione in oltre trenta paesi, Matthew Blake firma un thriller psicologico avvincente e inquietante, in cui il confine tra preda e predatore, tra vittima e carnefice, tra innocente e colpevole è sempre effimero e volubile.


L’autore

Matthew Blake ha studiato Lettere alla Durham University e al Merton College di Oxford. Ricercatore e speechwriter a Westminster, dopo aver scoperto che in media una persona passa dormendo trentatré anni della propria vita, inizia una ricerca approfondita sui crimini legati al sonno e sulla misteriosa malattia conosciuta come “sindrome della rassegnazione”, che lo porta a indagare su delitti compiuti in casi di sonnambulismo. Anna O nasce da questo interesse ed è il suo romanzo d’esordio.


  • Casa Editrice: La Nave di Teseo
  • Pagine: 506
  • Prezzo: E 22,00

QUASI NIENTE di Valentino Ronchi



“Tutto accade per la prima e l’ultima volta, Rebalin. La primultima volta, se vogliamo darle un nome” disse il professore. “Questa, ad esempio, è la prima e pure l’ultima volta che ci incontriamo qui, in questo caffè sconosciuto. Non ci sarà mai un’altra volta uguale a questa, a questa mattina. E non perché questo è un posto inconsueto, anche se il fatto che sia inconsueto amplifica la sensazione. E’ l’irreversibilità del tempo. Ogni cosa accade una e una sola volta. Una strana forma di unicità”.


La Vita, che gran tentativo!

10/04/2024

Valentino Ronchi torna al romanzo a due anni di distanza dal suo Rivieria ( RIVIERA di Valentino Ronchi ) con un’opera che tratteggia uno sprazzo di vita di Vladimir Jankélévitch (1903 – 1985), filosofo, musicologo e pianista. Il titolo riprende una sua frase. Il resto è invenzione, che tuttavia ha il pregio e la pretesa di seguire il leit motiv della vita di Jankélévitch, che egli stesso considerava un tentativo di comprenderne gli acuti, le combinazioni e le premesse per la pienezza e la felicità, sfuggente agli occhi di chi indugia ad osservarla troppo da vicino.

Il romanzo è una storia semplice, che Ronchi costruisce con delicatezza e rispetto storico. Una storia che è più un’incursione negli animi dei tre protagonisti: Jankélévitch nella sua veste di professore di filosofia di un liceo di Lione, e due giovani. Philippe Rebalin, studente di buona famiglia, dalla mente vivace e dall’impeto vitale proprio dell’adolescenza e Alina Babic, figlia di immigrati slavi, fiore delicato fuggito in extremis da una promessa di matrimonio sconveniente.

Nel 1933, mentre in Germania suonano venti di cambiamento e i rimbombi di un clima di intolleranza sempre più evidente, i tre conducono una vita separata. Jankélévitch è stato trasferito a Lione per lavoro. Lo conosciamo mentre riprogramma la sua vita lontano dalla sua città, aggrappandosi a nuove abitudini e rifugiandosi nella musica, unico vero sfogo per il filosofo, che nella musica trova la consolazione della ripetizione e l’espressione dell’irreversibilità del tempo. Philippe, di famiglia borghese, è nella classe terza del liceo e deve ancora trovare il suo posto in un mondo a lui ancora sconosciuto. Non sa se iscriversi alla classe di formazione pre-universitaria. Non conosce l’amore; vive come in superficie per non affondare il viso in cose più grandi di lui. Alina è di estrazione modesta. Bella e delicata, dall’aria nordica e dall’aspetto gracile, lavora in casa di una ricca vedova, che è per lei una figura quasi materna. Alina si sente ancora straniera sebbene viva a Lione fin da quando era una bimba. E’ inconsapevole della sua bellezza che pure splende senza sforzo dalla sua figura smilza e fugace.

Due incontri casuali. Quello del professore e del suo studente, durante le loro solitarie passeggiate mattutine. E quello dei due ragazzi, che si incontrano per caso su un tram e da lì iniziano a frequentarsi timidamente fino a che sboccia l’amore.

Quasi niente è la storia di queste convergenze. Come passaggi obbligati, come segnali di quella Vita che assecondiamo talvolta con passività, talvolta con l’appassionata volontà di prenderla tra le braccia. Se è vero che la similitudine ci attira l’uno verso l’altro senza alcun motivo se non quell’attrazione ineffabile e misteriosa, è anche vero che l’attitudine a volerci conoscere sfondando la superficie delle cose è quanto di più eversivo e rivoluzionario possa esistere.

E così il professore e lo studente si compenetrano pian piano. Il primo fornendo all’altro il desiderio di crescere e di studiare per se stessi. E il giovane Philippe contaminando il suo professore con quella magnetica sfrontatezza che è, in fondo, l’essenza della giovinezza, dei suoi impeti genuini e spontanei. Fornendogli spunti di una riflessione filosofica che avrebbe poi ripreso per se stesso.

E così Philippe e Alina cedono alle lusinghe dell’amore spirituale e terreno e alla volontà di stare insieme, unica loro dote, un tutto che cancella l’assenza di ogni altra forma di ricchezza.

Il resto è intima indagine sulle dinamiche inattese e sorprendenti degli inizi, quando le vite si intrecciano e si dichiarano pronte a trasmettere e a trattenere le esperienze dell’altro. Un esperimento sociale, forse, ma ancor di più l’istinto voyeurista di chi vuole rappresentare l’attimo in cui tutto inizia. I primi fiati di un amore. E le incursioni di un libero pensatore che voglia catalogare la verità, la felicità, la vita stessa, squarci di luce che svaniscono non appena lo sguardo vi si posi troppo a lungo. Quasi a voler dire che la vita va vissuta con un pizzico di incoscienza e di rischio, quel brivido sulla pelle che è l’essenza di un’esistenza autentica e piena.

Quasi niente è cronaca di un incontro. E’ un inno alla vita, all’imprevedibilità e alla casualità . Un romanzo che ci riporta a quell’età dell’oro in cui l’uomo era ancora capace di ascoltare se stesso e l’altro. Un passato di cui l’autore sa riportare echi e atmosfere, con la soavità di una prosa incantevole e sobria.


Il romanzo

Nel gennaio del 1933 il filosofo francese Vladimir Jankélévitch, ancora giovane professore, riceve l’incarico dal Lycée du Parc a Lione, e a Lione si trasferisce da Parigi. In questa città sferzata dal vento conosce Philippe Rebalin, un ragazzo che si affaccia alla vita adulta con sfrontatezza e passione, e Alina Babić, figlia di immigrati, scampata a un matrimonio sbagliato, che il sorriso meraviglioso dei suoi diciotto anni lo riserva a poche, pochissime persone.

Realtà e fascinazione, invenzione e gioco letterario: in questo romanzo breve i tratti netti di un amore e di una filosofia, fotografati nel momento magico e irripetibile dell’inizio.


L’autore

Valentino Ronchi (Milano 1976) ha pubblicato il romanzo Riviera (Fazi 2021) e i libri di poesia Buongiorno ragazzi (Fazi 2019), Primo e parziale resoconto di una storia d’amore, (nottetempo 2017) e L’epoca d’oro del cineromanzo (nottetempo 2016). Ha ricevuto il Premio Montale nel 2004, il Carducci nel 2013, il Fogazzaro e il Mauro Maconi nel 2016, il Luciana Notari nel 2020, l’Oreste Pellegatti nel 2023. Editor per diverse case editrici, cura la collana di poesia Quai de Boompjes per l’editore peQuod, scrive per Gradiva International Journal of Italian Poetry. Sue poesie sono incluse in Leggendo (Mondadori pearson), Cipressetti miei (Crocetti, a cura di Vivian Lamarque), Poeti underground (Il saggiatore) e nel Journal of italian translation. Con lo pseudonimo Massimiliano Varnai scrive di bibliofilia.


  • Casa Editrice: fve editori
  • Pagine: 144
  • Prezzo: E 17,00

UN ANIMALE SELVAGGIO di Joel Dicker


Ma gli animali selvaggi non sono come gli uomini. Li puoi ammansire, truccare, travestire. Puoi dare loro amore e speranza. Ma non puoi cambiare la loro natura.


8 aprile 2024

La giostra delle apparenze. Quando il passato bussa alla porta e confonde le tue carte.

Inutile dire il contrario: quando Dicker torna in libreria la febbre sale. Tutti vogliono leggerlo.

Quale sia il segreto di un successo editoriale così conclamato e trasversale è facile da dire ma anche complesso, per certi versi, perché ci costringe ad addentrarci in meccanismi inafferrabili che hanno a che fare con il nostro subconscio. Il desiderio di leggere ciò che tutti leggono, la necessità di conoscere questo autore di cui tutti parlano, il lasciarsi toccare nel profondo dai temi che l’autore tratta nei suoi best seller: l’identità, il desiderio, la necessità tipica dell’animale umano di essere riconosciuto, considerato, visto, la brama di successo, il rimpianto, la nostalgia. L’intero spettro dei sentimenti che guidano i nostri istinti, che, come il titolo di questo ultimo romanzo ci rammenta, sono spesso ingovernabili.

Chi ha letto Dicker almeno una volta difficilmente lascia che questa esperienza resti un caso isolato. Di solito far il bis. E di solito non si ferma. I suoi romanzi hanno la capacità di attirare il lettore e creare un collante indissolubile tra l’occhio che legge e la pagina oggetto di lettura. Come cerchi concentrici, le pagine dei romanzi di Dicker creano un vortice che risucchia il lettore e lo trascina dentro la trama, in quel mondo parallelo in cui è così facile perdersi. Dicker è il maestro dei solti temporali, che utilizza con enorme efficacia (e in Un animale selvaggio in modo particolare, come vedremo più avanti). Le sue trame usano spesso il flashback per rimandare il lettore ad un momento del passato che motiva e crea le basi per le azioni del presente. La curiosità che sa creare nel lettore, il coinvolgimento a 360 gradi, le continue sollecitazioni che gli indirizza sono gli ingredienti che fanno la differenza tra un romanzo piacevole e un romanzo indimenticabile, che lascia una patina di malinconia quando giungi all’ultima pagina.

Non basta avere gli ingredienti giusti per costruire un piatto perfetto. L’ingrediente segreto di Joel Dicker è la narrazione. Toccando ogni volta i tasti giusti, quelli che fanno vibrare gli animi dei lettori. Dicker è un grande romanziere. Colui che con una semplice traccia costruisce la storia, con le sue ramificazioni, i supi personaggi. le indagini dentro ai loro misteri e ai loro desideri. Così nasce il romanzo, che sembra irrompere dalla penna di Dicker come l’acqua da una sorgente, che si ingrossa e cresce fino a diventare un fiume maestoso e placido, che scorre lentamente fino al mare.

Detto questo veniamo all’ultimo lavoro di Joel Dicker, Un animale Selvaggio, uscito per La Nave di Teseo il 25 marzo di quest’anno e subito in vetta a tutte le classifiche di vendita.

Il romanzo è ambientato a Ginevra, e ha per protagonista una giovane coppia che ha tutto dalla vita: amore, successo, denaro, bellezza, due figli perfetti, una casa bellissima. Una vita che sembra scorrere sull’olio, fatta per diffondere felicità e perfezione. Eppure qualcosa incrina questo quadro idilliaco e poco alla volta segreti e retroscena inaspettati verranno allo scoperto, minacciando gli equilibri che Sophie e Arpad hanno costruito, non senza scendere a patti con un passato scomodo e con l’ingovernabilità degli istinti.

Dicker conduce la trama lasciando che il lettore vi si addentri a poco a poco, dispensando le informazioni necessarie al dipanarsi della trama a piccolissime gocce. Ogni scoperta, ogni ipotesi, è una concessione e una vittoria che il lettore deve conquistarsi. Ogni notizia, ogni tassello è parte di una costruzione perfetta che apparirà in tutto il suo diabolico splendore solo nelle ultime pagine del romanzo, quando chi legge potrà tirare le sue conclusioni e il quadro finale apparirà come uno squarcio di cielo terso dietro alle nubi.

La lettura è un’esperienza meravigliosa, rotonda, avvincente. Ci sentiamo cullati dalla prosa perfetta di Dicker, ammansiti e acquietati come un bimbo sulla soglia del sonno mentre ascolta una favola, gli occhi socchiusi e i sogno che trabocca dalle ciglia. Soddisfatti dagli incastri millimetrici della trama, che è un meccanismo perfetto, in cui tutto trova la sua collocazione e niente esiste per caso. Lo scopo è quello di abbracciare il lettore completamente, regalando un’immersione totale nella vicenda, che si abbandona malvolentieri, nell’istante in cui si realizza che l’impianto narrativo è una vita intera, quella dei personaggi che mai come nei romanzi di Dicker tendono pericolosamente verso l’autenticità, con la loro esistenza, le loro brame, i loro segreti. Esseri che ci assomigliano e che ricalcano i nostri sbagli e i nostri desideri. Che raggiungono le mete che anche noi ci prefiggiamo e che hanno scopi del tutto assimilabili ai nostri.

Faccio volentieri anche un’altra considerazione. In Un animale selvaggio Dicker scorcia il romanzo di alcune centinaia di pagine rispetto ai suoi precedenti. Il taglio più snello (sebbene le pagine siano comunque più di 400) fa bene alla lettura, comunque meno dispersiva, aspetto che penalizzava, per esempio, il suo precedente romanzo, Il caso Alaska Sanders, in alcuni punti un po’ farraginoso.

Non vi invito a leggere questo romanzo, perché lo avrete già fatto o lo starete facendo. Amato o odiato, magnificato o detestato, di Dicker si parla e si parlerà sempre. La strada è lunga (Dicker ha solo 39 anni) e la sua penna è lungi dall’esaurirsi. Una bellissima consolazione da prendersi quando un libro si chiude e con esso le sue storie. Adesso godiamoci le eco di questa storia e la presenza di questo magnifico autore in Italia, dove è già stato per la presentazione ufficiale a Milano e dove tornerà presto (al Salone internazionale del libro di maggio, dove scatenerà il delirio, come già è successo nel 2022! – l’evento è già sold out e i posti senza prenotazione sono davvero esigui rispetto alla fiumana di fan che verranno da ogni dove. Dicker è forse l’unico scrittore da palasport!)

Sono grata che al mondo esistano romanzieri di questo calibro. Ci rendono la vita più bella e ci fanno sentire meno soli. A presto Joel.


Il romanzo

2 luglio 2022, due ladri stanno per rapinare una importante gioielleria di Ginevra. Ma questo non sarà un colpo come tutti gli altri. Venti giorni prima, in un elegante sobborgo sulle rive del lago, Sophie Braun sta per festeggiare il suo quarantesimo compleanno. La vita le sorride, abita con il marito Arpad e i due figli in una magnifica villa al limitare del bosco. Sono entrambi ricchi, belli, felici. Ma il loro mondo idilliaco all’improvviso s’incrina. I segreti che Arpad custodisce cominciano a essere troppi perché possano restare nascosti per sempre. Il loro vicino, un poliziotto sposato dalla reputazione impeccabile, è ossessionato da quella coppia perfetta e da quella donna conturbante. La osserva, la ammira, la spia in ogni momento dell’intimità. Nel giorno del compleanno di Sophie, un uomo misterioso si presenta con un regalo che sconvolgerà la sua vita dorata. I fili che intrappolano queste vite portano lontano nel tempo, lontano da Ginevra e dalla villa elegante dei Braun, in un passato che insegue il presente e che Sophie e Arpad dovranno affrontare per risolvere un intrigo diabolico, dal quale nessuno uscirà indenne. Nemmeno il lettore.

Un animale selvaggio è un thriller mozzafiato costruito attorno a un meccanismo di suspense perfetto, che ci ricorda perché Joël Dicker, l’autore di La verità sul caso Harry Quebert, è diventato un fenomeno editoriale mondiale.


L’autore

Joël Dicker è nato a Ginevra nel 1985. I suoi romanzi sono tradotti in 40 lingue e hanno venduto più di dieci milioni di copie. Ha pubblicato La verità sul caso Harry Quebert (2013), Gli ultimi giorni dei nostri padri (2015), Il libro dei Baltimore (2016), La scomparsa di Stephanie Mailer (2018), L’enigma della camera 622 (2020), Il caso Alaska Sanders (2022). Ha ricevuto il Prix des écrivains genevois 2010, il Grand prix du roman de l’Académie Française 2012 e il Prix Goncourt des Lycéens 2012.


  • Casa Editrice: La Nave di Teseo
  • Pagine: 448
  • Prezzo: E 22,00

IL MIO GATTO JUGOSLAVIA di Pajtim Statovci


Quando mi chiedono come mi chiamo, a volte dico il mio vero nome, ma spesso rispondo Michael o Jon, Alberto o Henry, così riesco ad evitare la seconda domanda: E da dove vieni?


3 aprile 2024

Identità, luoghi, radici. Il romanzo di formazione del giovane Statovci.

E’ davvero impossibile non lasciarsi travolgere dalle storie di Emine e di Bekim. Storie di crescita, di sogni che si schiantano contro la realtà, di spostamenti fisici e viaggi mentali in cui la morte appare sempre come l’unico capolinea.

Questo è il primo romanzo di Pajtim Statovci. E’ il romanzo in cui si racconta, una presentazione aspra e disincantata, poetica e dilaniante. Una storia che parte dalle radici in Kosovo, dove è nato, e arriva alla fine di un percorso di vita tormentato e sofferto in Finlandia, dove è cresciuto.

I gatti sono il filo conduttore. Insieme alla morte, che aleggia ovunque. Gatti come specchi riflettenti, adorabili e graffianti grilli parlanti, coscienza e monito per i due protagonisti.

Lei, Emine, diciassettenne nella primavera del 1980, schiacciata dalle convenzioni e dall’assenza di prospettive future. Nella provincia più sperduta del Kosovo sogna l’occidente ma sa che il suo destino è tutt’altro, E’ una donna, non può studiare, non ha talenti, non ha voce alcuna. L’unica sua dote è essere una brava casalinga. L’unica speranza è trovare un marito che sia buono con lei.

Lui, Bekim, quarto di cinque figli, è cresciuto in Finlandia, una terra estrema e misconosciuta, lontana anni luce dalla terra dei suoi genitori, il Kosovo. Del Kosovo, delle sue tradizioni, persino della sua lingua non conserva più nulla. Ormai le sue radici sono in quel nord freddo e asettico, che tuttavia lo respinge, lo giudica, lo vuole simile a sé ma gli rende impossibile diventarlo. Un immigrato dai capelli scuri e dal naso aquilino, guardato con sospetto, accusato di approfittare dello stato sociale finlandese, di non stare alle regole, di essere incivile e inutile. Una condizione che accompagna la sua infanzia e che finisce per allontanarlo dai suoi genitori, di cui si vergogna. La loro lingua stentata, il loro aspetto, le loro idee anacronistiche e fuori luogo.

Emine e Bakim sono le facce di una stessa medaglia. Lei incarna la giovinezza immolata nella speranza di un matrimonio felice, che puntualmente la deluderà nel profondo, insieme all’ideale maschile, crollato miseramente sotto i colpi della violenza e della noncuranza. La fuga, la speranza e il fallimento dell’integrazione all’estero. La famiglia disgregata, l’amore finito.

Lui è l’immigrato di seconda generazione, che si integra ma che cova solitudine, disincanto e odio. Guardato con sospetto, nonostante sia un ottimo studente e un cittadino diligente e corretto. Straniero in Finlandia, straniero in Kosovo. Senza radici, senza guida.

Il romanzo è condotto in prima persona. Le voci di Emine e di Bekim si alternano alla guida del racconto. Sono entrambe voci accorate, velate di dolore, alla ricerca di un modello in cui riconoscersi. Un percorso complesso, che si srotola pieno di asperità e di sgomenti mentre i Balcani si disgregano, i cieli solcati dai caccia, le bombe, la distruzione, il cambiamento.

Esce prepotentemente da queste pagine il desiderio di essere visti e riconosciuti dagli altri. Non più invisibili, non più persone da decifrare. Esseri umani che devono amalgamare secoli di tradizioni, di pensieri inculcati con la forza del tempo e del sangue, di schemi mentali e credenze inviolabili con un presente incomprensibile e difficile da sottoscrivere.

Così Bajram, marito di Emine, fautore della fuga verso il nord, ripiegherà sull’idea del ritorno, ormai inviso dai figli e soffocato da un sentimento insopportabile di rifiuto. Il Kosovo non saprà curare le sue ferite. Così Emine sceglierà di invecchiare sola, scendendo a patti con la società finlandese, dalla quale non si staccherà più. E così Bekim, il bambino irrequieto dilaniato dagli incubi, l’adolescente che sogna la letteratura, il giovane omosessuale incompreso dal padre, pedina impazzita, ago di una bussola senza magnete, farà pace con il passato della sua famiglia e lascerà che un uomo penetri la sua cortina di solitudine.

Statovci è una voce vibrante della letteratura contemporanea, che nasce da esperienze forti di vita e che succhia linfa vischiosa e spessa da un presente difficile e da un passato complesso e soverchiante. Una penna che è tuono e sussurro, una forza che incide ragnatele di sangue sulla pelle. La forza dell’esperienza di una vita che è l’esempio perfetto dei nostri tempi difficili. Migrati e migranti. Masse umane che si scontrano ed escono perdenti contro la posta in gioco, che è quella di trovare un luogo che accolga e ripari Una guerra di radici, di lingue, di gesti e abitudini. Odori, sapori, parole, regole. E aspettative impossibili, scontri di civiltà, di tradizioni.

Impossibile restare indifferenti davanti a questa prosa. Al cospetto di un vissuto che vediamo da lontano, spettatori insipidi e distratti che lasciano che la Storia li trapassi senza fallo.

Statovci riesce a scuotere i nostri corpi e a spingerli in zone pericolose, quelle che accuratamente evitiamo per non essere coinvolti e travolti dai macigni di una attualità che ci condanna ogni giorno. La sua prosa riesce a penetrare l’impenetrabile. A indurre quella pausa di riflessione che può elevare il nostro spirito dalla terra melmosa dell’indifferenza. A lasciare libera l’immedesimazione, sconosciuta e invisa capacità.

Una scrittura unica e sottile, come l’ago che affonda nella stoffa e la ricama delicatamente. Ciò che Statovci crea con la sua penna è davvero un capolavoro di introspezione, di sottilissima psicologia e di indagine nell’intimità dei suoi personaggi, attori millimetrici della Storia. Una penna che non rinuncia agli abbagli psichedelici del surreale, che rende ancora più speciale ed incisivo un racconto che è tragico nella sua potente realtà ma anche catalizzatore di magia e dei rimbombi di un’epoca perduta e mai dimenticata.


Il romanzo

Negli anni Ottanta, in un villaggio della Jugoslavia, Emine è una giovane donna che spesso si scontra con le idee del mondo attorno a sé e con un padre severo e superstizioso. Per un capriccio, un uomo che conosce appena le chiede la mano, e lei in quel matrimonio intravede la possibilità di un cambiamento. Quando i Balcani in guerra si sgretolano, la famiglia fugge in Finlandia e la vita nel nuovo paese è dominata dalla paura e dalla vergogna.
Accanto a lei, il figlio Bekim cresce in una terra dove a chi viene da fuori si comanda di accontentarsi di poco e di essere grati. Il ragazzo rischia di diventare un emarginato sociale, è un immigrato ed è gay, in un paese sospettoso verso gli stranieri fino alla violenza. Quando gli chiedono il suo nome, spesso ne inventa uno. A volte finge di essere russo. I duri del posto gli sputano in faccia. È ossessionato dalla pulizia e distaccato non solo dai suoi compagni di scuola ma anche dalla madre, che a sua volta è alla ricerca di una identità e di un futuro diversi. A parte incontri occasionali, l’unico compagno di Bekim è un enorme serpente, un boa che lascia vagare liberamente per l’appartamento. Poi, una notte in un gay bar, il giovane incontra un gatto come nessun altro. Questa creatura parlante, capricciosa, affascinante e manipolatrice lo guiderà in un viaggio sconvolgente nel passato, verso il Kosovo e i suoi demoni, per dare un senso alla storia magica e crudele della sua famiglia.
Il primo romanzo di Pajtim Statovci è una continua sorpresa: un serpente letale, un gatto sprezzante e sexy; incontri online e matrimoni balcanici; il caos surreale del l’identità; le cose che cambiano quando cambia il nostro mondo, quelle che invece non cambiano mai; il catastrofico antagonismo tra padri e figli; l’attonito sentimento dell’amore. Statovci è uno scrittore di singolare originalità e potenza, e in questo suo esordio abbraccia la complessità del nostro mondo creando un’opera letteraria che possiede la forza di un classico del futuro.


L’autore

Pajtim Statovci, nato in Kosovo nel 1990, è cresciuto in Finlandia dove si è trasferito con la famiglia fuggita dalla guerra quando aveva due anni. Il mio gatto Jugoslavia, uscito nel 2014 (Sellerio 2024), ha vinto il Premio Helsingin Sanomat. Le transizioni (Sellerio 2020), il suo secondo romanzo, tradotto in molte lingue, finalista al National Book Award, ha vinto il Toi-sinkoinen Literature Prize nel 2016 e nel 2018 gli è stato assegnato l’Helsinki Writer of the Year Award. Gli invisibili (Sellerio 2021) ha ricevuto il prestigioso Finlandia Prize, che consacra l’autore come il più giovane vincitore di ogni tempo.


  • Casa Editrice: Sellerio
  • Pagine: 289
  • Prezzo: E 17,00

IL FUOCO CHE TI PORTI DENTRO di Antonio Franchini


Passa ‘ a vita e nun ce n’accurgimmo…

Ma che ne ho saputo io di lei per tutti gli anni della mia adolescenza e giovinezza e della sua maturità, quando vivevo la vita mia non incrociando mai la sua se non per casuali collisioni? Che ne sanno di noi i nostri figli quando non sono più i bambini con gli occhi rivolti a noi e non ancora gli adulti costretti a misurarsi con la nostra decadenza e fine? Per lungo tempo non diamo vita che a fortuite eclissi, allineandoci una volta ogni tanto come pianeti adusi a orbitare da soli nello spazio. Chi è la donna adulta, né ragazza né vecchia, che sorride dalle foto degli anni Settanta e Ottanta vestita di prendisole a fiori, di pantaloni scampanati, di abiti che non ricordo? È mai stata passabilmente felice? Si è mai acquietata vicino al suo uomo per un ragionevole periodo di pace? È forse questo tempo della nostra pienezza, il momento buono che è sparito e non può tornare, ciò che ci fa soffrire perché ci lascia dentro la nostalgia della sua scomparsa e ci avvelena il presente con la rabbiosa rimembranza della nostra vita migliore.


12 marzo 2024

Il personaggio sovrasta una persona impossibile. Una madre, certezza, eccesso e caricatura.

Una madre che occupa ogni spazio di un racconto. Che trabocca, querula e indecente, dalle pagine che, sebbene copiose, non possono assolutamente aspirare a contenere un etto di questa madre fuori dagli schemi. Ingombrante, rumorosa, colorita, sboccata, incline alla tragedia quel tanto da farla sconfinare nel grottesco, nel comico. Una donna che sposa la missione di manovratrice delle dinamiche familiari, dittatore del focolare, factotum, portavoce, mentore e vessillo della famiglia, del marito e dei figli, innocenti malcapitati agnelli sacrificali di un ego sconfinato e indomito.

Un’opera insolita per chi la madre l’ha sempre e solo venerata, o al massimo raccontata con quel trasporto che spesso si tinge di malinconia, di solidale partecipazione, di riconoscenza, di estremo rispetto, esacerbato dalla necessità di ricordare e celebrare.

Qui no. Qui siamo agli antipodi. Qui c’è un figlio che ha detestato e detesta sua madre, garrula incarnatrice di tutti i vizi dell’Italia. Una donna esagerata in ogni sua declinazione che ha fatto della sua vita una crociata contro tutto e tutti. Becera e qualunquista, giudicante e immune al giudizio altrui, che schifa il prossimo prima che questo possa schifare lei.

Una donna del sud, dalla sensualità prorompente, dal contegno ambiguo, friccicariella, come ama dire di se stessa, un aggettivo che la pone ad un soffio dall’essere zoccola, quando questo stesso concetto assume, dalle sue labbra, mille sfumature, alcune decisamente perdonabili, in un’epoca che vede la donna assurgere per lo più al ruolo di gingillo, per cui leggerezza, leggiadria e provocazione sono solo metodi accettabili di sopravvivenza in un mondo declinato al maschile.

Una sgherra, epiteto che comunica a chiunque un senso latente di resistenza, di indomabilità. Una sannita, che conosce e impone le sue personalissime forche caudine a chiunque gli si pari davanti. Donne, verso le quali non ha che la benché minima solidarietà di genere e che considera universalmente zoccole. Gli uomini, figli di zoccola e l’autore stesso, suo unico figlio maschio, definito con malagrazia “un animale a sangue freddo”.

Angela Izzo è un personaggio che schiaccia la persona. Una donna che ha voluto essere personaggio a qualsiasi prezzo. Che ha irretito i figli e si è inimicata mezzo mondo per quel suo modo di nascondere un latente senso di inferiorità culturale nel modo più semplice ed efficace: attaccando il prossimo con ogni mezzo a sua disposizione.

Una donna del Sud che incarna ogni chiassosità, ogni sguerguenza, ogni beceraggine. Con il suo indugiare in un dialetto stretto e spesso scurrile e con appresso le storie, sempiterne, della sua vita. Piccole e grandi rivincite, comiche ripicche su un destino che la vorrebbe sopire tenendola un passo indietro al marito, ai figli e ai parenti tutti. Furba di una furbizia al limite della legalità, in fissa per ogni forma di beneficio pubblico e che fa del pensare male una filosofia di vita. Una donna impulsiva, che agisce perché “accussì m’ha ditt ‘a capa”.

Circondata da un circo di personaggi spesso grotteschi e dalle personalità della Storia. Musolino, invocato come portatore di ordine in un mondo confuso, la Merkel, brutta e inelegante “una Hitler con la gonna”,

Una donna portavoce di quel confuso scontro tra nord e sud, filippiche portate avanti quando, ormai vedova, decide di trasferirsi a Milano, vicino al figlio Antonio.

Perché, dunque, raccontare di una madre così? Odiata, invisa, maleodorante e di cui vergognarsi? Perché la necessità dell’approvazione di un genitore, seppure detestato, malvisto, dal contegno assolutamente incondivisibile, è una forza trascinante e primordiale. E perché la tendenza a giustificare, capire, sviscerare, malcela il desiderio di scoprire qualcosa di buono, un’ombra che nasconde qualsiasi cosa possa essere accostata al bene, all’amore, al desiderio di felicità di un genitore verso il figlio.

Una verità, questa, che fa capolino timida sul finale. Una sola domanda, che si estingue nella ricerca dei motivi per cui un figlio voglia bene a una madre così. Un mistero che ne racchiude uno ancora più grande e che tuttavia non è lo scopo di questo grande lavoro, destinato a rimanere. Lo scopo è più semplice, più elementare e forse meno nobile: raccontare la vita, le gesta, le follie e le fissazioni di una donna di altri tempi. Nata in un mondo che ha fatto del cambiamento il suo vessillo e della necessità di demolire il ruolo della madre un mantra della modernità. Una distruzione repentina e caparbia che ha spiazzato ogni baricentro e che ancora oggi ci fa cercare a capo chino ogni maceria, ogni detrito.

Angela si erge sopra ai resti fumanti di questo ordigno, indimenticabile paladina di un mondo già passato e ormai lontano.

Un libro che ho amato tantissimo, che mi ha fatto ridere, lacrime agli occhi che si perdono dentro l’idioma napoletano e nei meandri di un sistema di pensiero che è ormai leggenda e nel quale possiamo riconoscerci. Una scrittura che è sinfonia mai amara e che conserva, sempre, un’impronta benefica e salvifica. Che dispensa indulgenza anche mentre si esaspera nel prenderne le distanze.

Franchini beatifica suo malgrado questa donna che non si può non amare pur nella rabbia dei suoi atteggiamenti e nella accecante miopia delle sue vedute. Una donna dalle carni prorompenti che non si vergogna di usare la sua femminilità per i suoi scopi e che lo fa senza mercificarsi. Una saggezza popolare che non ha niente di saggio ma che si erge a glossario per sopravvivere.


Il romanzo

Il fuoco che ti porti dentro racconta la vita e la morte di Angela, una donna dal carattere impossibile. Una donna che incarna in maniera emblematica tutti gli orrori dell’Italia, nessuno escluso: «il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore…»

Questa donna era la madre dell’autore. Il romanzo è un’indagine nella vita, nelle passioni e negli odi di una donna, alla ricerca di una spiegazione possibile. La forma è quella della commedia, il contenuto quello della tragedia. Quale esperienza manifesta o occulta, quale frustrazione, quale nascosta ferita può renderci tanto ostili, rabbiosi, refrattari a qualsiasi forma di pacificazione? Quale motivo, semplice o complesso, sta dietro la furia di Angela: la guerra che la segna da bambina? un padre morto troppo presto o una madre morta troppo tardi che le ha, a sua volta, infelicitato la giovinezza e la maturità? un atavico complesso d’inferiorità o l’appartenenza alla cultura del Meridione oppresso le cui ragioni Angela vorrebbe far valere contro l’odiato Nord usurpatore? Oppure, più semplicemente, il fuoco interno che la divora è privo di qualsiasi ragione come il cuore nascosto di un vulcano? Antonio Franchini, con maestria e misura, eccesso e discrezione, ha scritto un romanzo-memoir popolato di personaggi che circondano una protagonista sempre al centro della scena. Un’eroina eccessiva e imprevedibile, capace di alternare toni drammatici e ossessivi a momenti decisamente comici. È un racconto che mescola la commedia eduardiana al furore ctonio, l’urgenza di uno sfogo viscerale alle cadenze studiate di una messa in scena, di una vera e propria recita.


L’autore

Antonio Franchini è nato a Napoli nel 1958. Ha esordito nel 1992 con Camerati. Quattro novelle sul diventare grandi. Per Marsilio ha pubblicato: Quando vi ucciderete, maestro? (1996, 2019), Acqua, sudore, ghiaccio (1998, 2021), L’abusivo (2001, 2020), Cronaca della fine (2003, 2019), Signore delle lacrime (2010, 2020), Memorie di un venditore di libri (2011) e Leggere possedere vendere bruciare (2022). Nel 2020, per NNE, è uscita la raccolta di racconti Il vecchio lottatore. Vive a Milano e lavora nell’editoria.


  • Casa Editrice: Marsilio
  • Pagine: 223
  • Prezzo: E 18,00

FINE DI UNA STORIA di Graham Greene


Quando partì l’attacco ci eravamo appena coricati. Non faceva nessuna differenza. A quei tempi la morte non aveva importanza, nei primi giorni arrivavo a invocarla: l’annichilimento, la distruzione grazie alla quale avrei fatto a meno di alzarmi, di vestirmi, di seguire la scia della lampadina di lei fino al lato opposto del Common, come il fanalino posteriore di un’automobile che si allontana a passo d’uomo. A volte mi sono chiesto se, in fin dei conti, l’eternità non sia che l’infinito prolungamento del momento della morte, e questo era il momento che io avrei scelto, che ancora sceglierei se lei fosse viva, il momento della fiducia assoluta e dell’assoluto piacere, il momento in cui era impossibile litigare perché era impossibile pensare.


Lui, lei e l’Altro: il triangolo con quattro lati.

28 febbraio 2024

Non c’è solo da scavare sul come e il perché chi ama ancora voglia girare intorno alla fine di un amore. C’è la grandezza e la luce accecante di un autore cult, che fece della sua vita un romanzo. Cattolico per convenienza e poi per scelta consapevole, i suoi amori tumultuosi, i bombardamenti, le droghe, le contestazioni, i dissidi, l’essere sempre fuori dalle righe. E, paradossalmente, essere etichettato come lo scrittore cattolico, un epiteto che abbracciò un uomo che visse pericolosamente e spesso in modo contraddittorio.

Fine di un amore è un romanzo con uno schema narrativo importante. E con personaggi altrettanto complessi. Il tormentato ed affascinante Bendrix, un uomo corroso dalla gelosia nonostante abbia il ruolo dell’amante nel triangolo amoroso che Greene concepisce. Un senso del possesso corrosivo, percorso come una corrente elettrica dall’odio verso Sarah, giovane, affascinante, per certi versi misteriosa per come gestisce il suo adulterio, senza sensi di colpa, quasi con leggerezza. Un odio che in realtà è solo amore disperato. E’ nostalgia velenosa, è ribellione e rifiuto di un dolore che Bendrix pensa non debba appartenergli. Chiamarlo odio è un modo per giustificare l’ossessione, per assolvere se stesso da una circostanza moralmente inaccettabile. E Henry, l’opaco marito, scialbo uomo di stato preso da questioni che appaiono inique e che lo allontanano dai bisogni della moglie.

La prima parte del romanzo è l’inizio della relazione tra Bendrix e Sarah. Mentre Londra risuona degli allarmi antiaerei e la morte sembra nascondersi dietro ogni angolo richiamando a sé ogni sentimento di urgenza e di provvisorietà, Bendrix e Sarah si amano perdutamente, in modo impudico, esplicito e scandaloso. L’amore fiorisce nella morte che impera e poi finisce, in modo brusco e inspiegabile.

Due anni dopo, finita la guerra, Bendrix incontra nuovamente Henry e la passione per Sarah si riaccende. Una miccia pronta ad esplodere, che non si fa specie di utilizzare ogni mezzo per indagare, spiare, sapere. L’odio torna a celare malamente una passione mai finita. La necessità di sapere, di speculare sull’amata non conosce limiti per Bendrix, che assolda un investigatore che pedini Sarah e che possa scoprire se ha una amante e chi è.

Poi la voce narrante cambia. Non più Bendrix ma Sarah, che parla attraverso il suo diario e che narra del suo incontro con la Fede. Un incontro fortuito, che nasce da un voto e che riporta la mente del lettore al voto di Lucia Mondella, anch’essa per certi versi perduta e salvata da un Dio ingombrante, pretenzioso e poco incline all’indulgenza.

E infine Bendrix, che si trova suo malgrado a confrontarsi con Dio, il suo grande concorrente, colui che ha preso Sarah con l’inganno. Bendrix, che diventa il conforto, la spalla di Henry, quando Sarah uscirà di scena.

Il romanzo è l’epopea di una donna adultera che cerca la Fede per sfuggire la morte e che poi la insegue con ostinazione e rabbia. Ed è la parabola emotiva di un uomo vittima dell’adulterio, che crede di manovrare le redini di un amore e che invece ne rimane schiacciato.

Dio li guarda dall’altro, beffandosi dei loro tormenti. Quello di Sarah, che vive rammaricandosi di non riuscire a credere e quello di Bendrix, corroso dai tormenti di un amore che gli si rivolta contro.

Una lettura ingombrante ed evocativa, che descrive la guerra come la più efficace e spietata cassa di risonanza delle emozioni umane. L’amplificatore perfetto e crudele degli aneliti degli animi sensibili, bisognosi di un riparo e di un conforto che mitighi le loro insicurezze e curi i loro più innominabili desideri. Un romanzo che imita i grandi classici del passato e che di questi mutua le passioni e le storture, quelle che distolgono l’uomo dalla chiarezza, dalla rettitudine, dalla virtù. La Fede è la cura efficace e psichedelica delle passioni indegne, sembra volerci dire Graham. Ciò che risana e riabilita quello che l’uomo corrompe. Ma rimare comunque il più grande mistero che l’Uomo conosca, quello a cui affidarsi ma anche quello che ti soffoca.


Il romanzo

Sarah Miles e Maurice Bendrix sono stati amanti durante la guerra. Il loro è un amore clandestino, rabbioso, quasi feroce. Una passione così assoluta che perfino i terribili bombardamenti tedeschi su Londra sembravano solo un sottofondo rumoroso. Il marito di lei, Henry, alto funzionario, non aveva mai dato segno di sospettare. Poi, Sarah aveva troncato di netto la relazione, improvvisamente e senza nessuna spiegazione.
Dopo quasi due anni, finita la guerra, un incontro casuale tra Bendrix e Henry Miles riaccende la gelosia dell’ex amante: Bendrix non crede che Sarah sia semplicemente tornata dal marito; «l’odio, il sospetto e l’invidia», mai realmente sopiti, lo spingono ad assoldare un investigatore privato che pedini Sarah alla ricerca di un «terzo uomo».
Ma che cosa ha capito Bendrix, che di mestiere scrive romanzi, ricordando il passato amore e inseguendo, attraverso i resoconti del detective, il presente di Sarah? Che cosa ha capito della «fine di una storia»? Il diario di Sarah svela un’altra verità. Non è solo l’ossessione, a volte selvaggia e spietata, di Bendrix che ha distorto la sua versione dei fatti. È anche che la storia di Sarah ha intrapreso una strada incommensurabile dove si incontra l’assurdo della fede, come desiderio di non essere soli nel deserto. Pubblicato nel 1951, Fine di una storia – da Greene definito il suo «Great Sex Novel» – è un romanzo lancinante, il resoconto di un amore carnale, immenso, crudele, in cui, per via dell’enormità della guerra, irrompe il divino. Ma è un divino diviso, tragicamente incerto, rischioso. Alla fine di questa storia, al di là dello scandalo e delle censure, resta – ha scritto Scott Spencer nella sua introduzione – la «convinzione che anche nelle circostanze più squallide ci sia qualcosa che non si vede, qualcosa che resiste e nobilita».


L’autore

Di Graham Greene (1904-1991), scrittore, giornalista, autore di reportage di viaggio, ma anche agente segreto di Sua Maestà Britannica, Sellerio ha già pubblicato Il console onorario (2019), Il treno per Istanbul (2019), Il fattore umano (2020), Una pistola in vendita (2020), Il terzo uomo (2021), In viaggio con la zia (2022), Un Mondo tutto mio. Diario dei sogni (2022), Brighton Rock (2023), Fine di una storia (2024) e sono in via di pubblicazione, tra gli altri: I commediantiIl nocciolo della questioneL’americano tranquillo.


  • Casa Editrice: Sellerio
  • Pagine: 365
  • Prezzo: E 16,00

IL POZZO VALE PIU’ DEL TEMPO di Ginevra Lamberti


Vorrebbe tanto il suo lenzuolo bianco tutto intero. Sarebbe semplice avvolgersi nella sua trama, sperare di trovarlo cresciuto proprio come lei, abbastanza da coprirla dalla testa ai piedi. Tenere fuori solo l’ovale del viso e guardare da sotto in su la facciata di una casa molto più grande di quella della Valle Scura. Contemplarla a lungo chiedendosi se valga la pena entrare oppure no.


Un futuro di scarsità e il mito della fagocitazione dell’infanzia.

19 febbraio 2024


Che ci si trovi in un punto imprecisato in avanti sulla linea del tempo si rileva dalla temperatura esterna, mortifera e invivibile, e da una involuzione esponenziale dei rapporti umani, che cessano di esistere come interazione e diventano appannaggio di una sopravvivenza labile e insperata.

Il mondo come lo conosciamo non esiste più. E la colpa è del clima, che ormai prevede temperature bollenti, assenza di piogge e un ambiente naturale compromesso, in cui gli animali hanno ritrovato una dimensione selvatica e indomita.

Le persone migrano. Abbandonano le città, ormai ridotte a serbatoi incontrollati di risorse. Lasciano le case comode per inerpicarsi sui monti o per popolare nuovamente valli strette e profonde, dove il sole stenta a penetrare. Sopravvivere costringe l’uomo ad dimenticare remore e convenzioni sociali. Ogni cosa ha un prezzo e ogni scopo viene raggiunto costi quel che costi.

Ginevra Lamberti dona al suo Veneto una connotazione crudele e straniera, rappresentando un coacervo di foreste, di acquitrini, di fango secco. La sua gente ridotta ad un insieme scomposto di bocche affamate, di menti offuscate da atavici pregiudizi. Un’esistenza che stenta a preservarsi, che si appoggia al caso e alla forza oscura dei potenti, disposti a tutto pur di conservare i propri privilegi. Una terra legata al passato, a tradizioni e dicerie che trasudano orrore e che sembrano fagocitare l’infanzia poiché è con i deboli che si cerca espiazione e salvezza.

Questo mondo oscuro, in cui niente ha valore se non la pura sopravvivenza, è raccontato da Dalia, una bimba di otto anni, abbandonata dalla famiglia, ferita, sola. Il candore proverbiale dell’infanzia si è rotto in lei. Rimane solo un’attitudine sorda alla fantasia, alla salvezza.

La sua è un’apoteosi quasi biblica, che prima è abitudine, poi ribellione e dopo disfatta. Come ogni vittima consapevole, non sa trovare né giustizia, né perdono, né espiazione.

Sopravvivere. Se il corpo in qualche modo si abitua a temperature infernali e alla scarsità di cibo, la mente non può cessare di cercare colpevoli e capri espiatori. Dove c’è un pozzo non c’è cibo, medicine e armi. Dove ci sono armi non c’è di che sopravvivere. La fame fomenta gli animi e li rende audaci. E mentre i bambini scompaiono, il cibo non è solo più un mezzo ma diventa la metafora del potere e del compromesso. L’innocenza perisce e il male si può solo estirpare con la morte.

Ginevra Lamberti confeziona un romanzo potente e magico. Una favola nera che allontana il sonno e attira l’incubo, in cui la tematica ecologica si intreccia con l’involuzione sociale, un istinto animalesco e feroce che prende il sopravvento e spinge l’uomo verso le sue inclinazioni più basse. La sua scrittura mutua tempi, incedere e immagine dal folklore e dal mito e dalla favola trae l’attitudine feroce a soffocare il mondo dell’infanzia, a farne il parafulmine di ogni bassezza umana, a colpevolizzarlo e a farne il capro espiatorio di ogni maledizione e di ogni incantesimo.

In fondo non serve scomodare il fiabesco per raccontare l’infanzia violata. Ma farlo, da sempre, rende la violenza, il sopruso più sopportabile, meno orrendo di come appare. E questo semplice assunto è il cibo con cui ognuno è cresciuto, normalizzando, spesso, atteggiamenti violenti e delatori. Lamberti gioca con questo aspetto. Se ne serve con intelligenza ed efficacia per disegnare un mondo alieno e irriconoscibile che tuttavia serba in sé quell’impeto alla potenza che devasta e impera. Un mondo senza speranza per noi umani. E ancora di più per chi è debole e solo. Niente di nuovo, dunque. Niente di buono.


Il romanzo

Dalia, otto anni, dopo un incidente passa molti giorni in un ospedale che non è un ospedale perché il mondo non è più il mondo; viene dimessa, torna a casa, la casa è vuota, probabilmente tutti sono morti. Dalia, nei giorni di ricovero, conosce due bambini che hanno avuto pure loro un incidente: il bambino soporoso che non può parlare e Morena, che non si muove bene, ma riesce a scrivere. Uscita dall’ospedale, di quei bambini, Dalia per molto tempo non saprà niente. Senza famiglia, senza soldi e senza casa, Dalia viene accolta dalla vecchia Fioranna, che ha fatto la maestra, sa insegnare e sa difendersi. Fioranna insegna a Dalia due cose: che il mondo così come gli esseri umani l’hanno conosciuto esiste ancora ma è nascosto sulle montagne, e come seppellire un corpo. Così Dalia, dalla valle tiranneggiata dalla famiglia Boscarato, i padroni di sempre – perché il mondo non è più lo stesso, ma chi è padrone tale rimane –, ascende alla montagna e arriva al Villaggio dei Pozzi. Sapendo come accudire e come seppellire, Dalia sa come trattare i corpi vivi e morti, anche quelli non umani. È così che diventa l’assistente del macellaio Biagio e la dama di compagnia dell’eccentrica Orsola. Se in ospedale, da bambina, i compagni di Dalia erano il bambino soporoso e la bambina con la penna, nella sua età matura sono proprio loro: Biagio, il macellaio burbero perseguitato da una gatta bianca, e Orsola, la donna delle storie, che vive da sola in un albergo dismesso dove, come ormai ovunque, si è consumato un delitto.

La temperatura del mondo fluttua intorno ai cinquanta gradi, le coltivazioni stentano, il bestiame muore, in montagna c’è acqua ma non ci sono armi né medicinali, in pianura ci sono sia le armi che i medicinali, ma non ci sono né acqua né cibo. È naturale che i Boscarato, come fanno sempre i padroni, tentino di mangiarsi tutte le risorse. Ma quando la temperatura esterna è tanto alta il capitale umano è l’unica risorsa che resta, e mangiare non ha più un significato così metaforico.

Se Agota Kristof, nella Trilogia della città di K., ha scritto che si è davvero capaci di uccidere quando si ammazza qualcosa che non bisogna mangiare, se Cormac McCarthy, ne La strada, ha descritto esseri umani che sono riserve alimentari di altri esseri umani, Ginevra Lamberti narra come la produzione di massa cambia il racconto dell’uomo che mangia l’uomo. In un romanzo potente, per scrittura e immaginazione, in cui la tenerezza è prima di tutto un abisso, anzi un fosso, nel quale le prostitute vendono i gesti e le parole della cura e non quelli della seduzione – ammesso che ci sia differenza –, e dove il Veneto è un Far West e Venezia ha smesso di essere un pesce perché la laguna non esiste più, Ginevra Lamberti fonda la mitologia del cambiamento climatico, del rispetto dei morti senza il culto, delle leggende che si ripetono uguali e maledicono secondo maledizioni sempre nuove perché sempre nuove sono le colpe, e dell’amore, che dopo aver fatto movere il sole e le altre stelle, per secoli, adesso le fa implodere.


L’autrice

è nata nel 1985 e vive tra Roma e Vittorio Veneto. Dopo La questione più che altro, uscito nel 2015 per Nottetempo, con Marsilio ha pubblicato Perché comincio dalla fine (2019, premio Mondello 2020) e Tutti dormono nella valle (2022). I suoi romanzi sono stati tradotti in Germania, Cina, Francia, Regno Unito e Brasile. È editorialista del quotidiano Domani.


  • Casa Editrice: Marsilio Editore
  • Pagine: 272
  • Prezzo: E 18,00

I CINQUE MISTERI DOLOROSI DI ANDY AFRICA di Stephen Buoro


Voglio dire a Eileen che la nostra propensione a cantare e a ballare di continuo non deve trarla in inganno e farle pensare che siamo un popolo felice. Perché non lo siamo. Siamo un popolo di maschere. Cantare, ballare e ridere sono i nostri tentativi per costringerci a dimenticare. Per ignorare l’Orrore. Per avere la felicità che non ci possiamo mai permettere. E, a volte, funziona.

L’africa. Una simulazione. Uno spirito-guida, un ciuffo biondo e il deserto che inghiotte.

5 Febbraio 2024

L’africa è un buco nero. Una terra bruciata dal sole, dove il futuro sembra non arrivare. L’Africa non ha speranze: ti tiene a terra, una gravità insensata e potente. Giù, nella polvere, tra i muri senza intonaco di fatiscenti casupole, l’energia elettrica che latita e che giunge debole a portare le eco del resto del mondo, un altrove lontanissimo, che ti fa rimpiangere ogni giorno di non essere nato al di là del deserto.

Andrew in Africa c’è nato. Per lui è un destino cattivo, ma anche l’unica casa che conosca. E la sua pelle nera un marchio, che lo mette costantemente nella condizioni di doversi meritare qualsiasi cosa. Non basta che la sua insegnante gli ripeta che ogni africano è uno stregone, un mago o un supereroe. Che ogni africano ha un cerchio di luce sulla testa. E che i bianchi conoscono il valore di ciò che hanno meglio di loro. Ecco perché son sempre avanti.

L’Africa è la casa della sua mamma, nera come la notte, con un buco tra i denti e il seno cadente. Prima di lui ha partorito Ydna, nato morto. Uno spirito con cui parlare. Una presenza che accompagna Andy da sempre anche se ultimamente capita che non si faccia sentire per giorni. Ed è la casa dei suoi drughi, Morocca e Slim, con i quali trascorre giornate sonnacchiose e condivide sogni di fuga.

Quando arriva Eileen, con i suoi capelli biondo platino e la sua pelle bianca, la vita di Andy subisce un cambiamento. L’amore, l’ossessione per Eileen e i suoi capelli eterei lo allontana da tutto. Dalle sue certezze, dagli affetti e dal senso di appartenenza. Un incantesimo al quale è difficile sfuggire, che conduce Andy su strade mai battute, preda di una vertigine che sposta il baricentro della sua vita. Come la vita di molti africani, che perdono memoria di sé e si gettano nelle fauci del mondo, offrendosi senza scrupoli e senza ideali.

Una storia di crescita che si appropria delle istanze di un presente sempre più contaminato dall’urgenza di avere e di apparire e dagli abbagli di una felicità che si mostra facile da agguantare e da mantenere. Una storia dove la magia e la spiritualità della terra africana si scontrano con i suoi disagi sempre e con i retaggi della storia.

Un romanzo di formazione, che mette in guardia dai falsi miti e ribalta l’urgenza di cambiare nel desiderio di capire la storia e le sue istanze. Una prosa efficacissima e dai toni freschi e intimi, che apre uno squarcio sull’Africa, sui suoi abitanti, sulle lotte religiose che la dilaniano e sulle mire di conquista che tempo per tempo l’hanno schiacciata.

Una storia dall’epilogo già visto, che induce in noi un momento di riflessione sui grandi temi che riguardano il presente. Il razzismo, le correnti migratorie, l’accoglienza, il falso mito. E la distanza abissale tra vecchie e nuove generazioni, quest’ultime sempre più sensibili alle urgenze della bellezza, della velocità e della visibilità mediatica.

Andy è il profeta di se stesso e della sua generazione. Un ruolo che sa interpretare con grande realismo, regalando la lettore una storia attraverso la quale reinventare il nostro punto di vista e aprire la visuale su un continente di cui sappiamo poco. Un romanzo indimenticabile, che è satira e luogo comune degli aneliti dei neri. Che è allegoria della storia africana e critica feroce dell’Imperialismo e del capitalismo.


Il romanzo

“Cara gente bianca, amo le ragazze bianche. Le bionde, soprattutto. Le bionde che si fanno la coda di cavallo, e una volta alla settimana i codini. So che sposerò una ragazza bianca, una bionda. Penso che le ragazze nere siano brutte? Certo che no. Significherebbe che la mia mamma è brutta. E questa stronzata non la voglio proprio sentire. Da nessuno”.

Kontagora, Nigeria. Le giornate del quindicenne Andrew Aziza sono scandite dalle canzoni stonate della madre Gloria, dai vagabondaggi con i suoi amici, uniti dal sogno condiviso di creare una lega di supereroi africani, dalle conversazioni con l’insegnante Zahrah, che l’ha ribattezzato Andy Africa, a proposito di teoremi matematici, poesia e afrofuturismo. Ma tra scuola, chiesa e il continuo fantasticare su un futuro lontano e migliore, un pensiero fisso si insinua in lui insieme alla pubertà: la passione sfrenata per le ragazze bionde, che lo rende cieco alle avances della sua amica Fatima e gli fa quasi dimenticare gli interrogativi sul padre che non ha mai conosciuto.

Così, sarà inevitabile per Andy innamorarsi all’istante della prima ragazza bianca su cui posa gli occhi: la biondissima e inglesissima Eileen, nipote del parroco locale, giunta in visita a Kontagora. Il suo arrivo coincide però con un attentato anticristiano in cui la mamma di Andy resta gravemente ferita, e con l’inaspettata apparizione di uno sconosciuto che afferma di essere suo padre. Nel giro di poche ore l’intera esistenza di Andy si capovolge, preda di sconvolgimenti molto più grandi di lui, che lo porteranno, insieme a coloro che ama, verso direzioni ignote e imprevedibili.

I cinque misteri dolorosi di Andy Africa sorprende, emoziona e costringe a ripensare il proprio punto di vista, tanto sui grandi temi dei nostri giorni – l’immigrazione, la direzione turbolenta in cui si sta muovendo il mondo – quanto sui desideri e i bisogni, veri o presunti, che guidano la nostra vita.


L’autore

Stephen Buoro è nato in Nigeria nel 1993 e vive a Norwich, in Inghilterra. “I cinque dolorosi misteri di Andy Africa” é il suo primo romanzo.


  • Casa Editrice: Atlantide Edizioni
  • Pagine: 398
  • Prezzo: E 20,00

CRISALIDE di Anna Metcalfe



Elliot: Mi piaceva guardarla. All’inizio non se ne accorgeva o non gliene importava niente. Non faceva mai come fanno certe persone, che quando qualcuno le guarda lo sentono — una zona calda sul viso o sul collo – e poi, senza neanche farci caso, si girano. Se lei quella zona calda la sentiva, era capace di ignorarla. L’aveva imparato. Faceva parte del suo grande progetto, restare il più immobile possibile. Diventare inamovibile.

Bella: Nella descrizione del video mia figlia aveva illustrato sua posizione. Diceva che l’isolamento è essenziale per crescita della creatività. Linkava altri account che celebravano la solitudine, spesso coniando parole nuove come solitarietà e isolatezza. Scriveva di guide spirituali che avevano trovato l’illuminazione nel silenzio, di artisti che si erano ritirati dal mondo per il bene della loro pratica. (…) “Star soli può essere bello”, aveva scritto. Ormai era l’unica forma di interazione che tollerava – citazioni e conversazioni ricordate, cose che poteva incorporare nella sua filosofia senza dover affrontare la complessità di un alto essere umano.

Susie: Dopo la rottura è venuta a stare da me. È arrivata alla fine di settembre e se n’è andata a fine marzo. Durante la metà buia dell’anno è andata in letargo e quando ne è riemersa era cambiata. Può sembrare che le abbia fatto un favore – a darle un posto dove stare, a tenerla al sicuro – ma in realtà era il contrario. Erano mesi che provavo una sensazione di agitazione, di nervosismo che, quando si è trasferita da me, per un po’ è scomparsa.


La solitudine, la ricerca di sé, le vetrine virtuali. Mi mostro, ergo sum.

29 gennaio 2024

La crudele contemporaneità di quest’opera prima coglie di sorpresa, quasi colpendoci a tradimento là dove la carne è più tenera, con l’inaspettata violenza di una verità di cui si è consapevoli ma che è difficile da palesare e riconoscere.

Crisalide è la somma di più solitudini. Solitudini subìte, quelle di Elliot, di Bella e di Susie. E solitudini cercate, quella di Lei, che non ha neanche un nome ma che rappresenta la bandiera accecante di chi decide di vendicare la sua esistenza complicata, pesante, incompresa e derisa mediante l’isolamento e la ricerca di una nemesi sociale, negando la sua presenza agli altri e mostrandosi solo attraverso i canali social.

La bravura di Anna Metcalfe, che si cimenta in un tema complesso, dibattuto e per certi versi anche inflazionato, è quella di aggirare la disputa collettiva sull’enorme tema dell’impatto dei social sulla vita moderna. Non commenta, non suggerisce, non tira conclusioni. Si limita a dispensare i fatti, la storia, l’evoluzione dei personaggi, indicando come l’emulazione possa, invero, essere in grado di lenire i disagi di chi è e si sente solo.

Due sono i piani di lettura di questo romanzo. Il punto di vista della protagonista, che nasce e cresce preda di un evidente disagio sociale, arginato attraverso un rapporto con la madre basato sull’umiliazione e il senso di colpa. Che cresce e subisce i contraccolpi di una relazione tossica. E che decide di prendere in mano la sua vita attraverso il suo corpo, che diventa la bandiera della sua interiorità. Un corpo solido, muscoloso, instancabile, esteticamente ipnotico. Un corpo da sottomettere mediante la volontà ferrea di mostrarsi forte, avulsa da ogni cedimento, quasi estraneo alle leggi della fisica e a ogni limite umano.

Il punti di vista di tre persone che hanno in qualche modo vissuto una fetta di vita con lei. Tre personaggi con un unico denominatore comune: la solitudine che caratterizza le loro vite, rendendole scialbe e opprimenti.

Elliot, un ragazzo solitario, abitudinario, dedito al lavoro, che si autodefinisce asociale. Bella, la madre, che soffre per tutta la vita il rapporto con la figlia, fatto di senso di inadeguatezza. Un rapporto difficile, che la figlia fagocita attraverso espressioni e comportamenti crudeli. Susie, la collega, colei che accoglie la ragazza dopo che ha messo fine alla relazione malata con il fidanzato. Susie, materna, accogliente, preda di un desiderio violento di assecondare, emulare, curare.

Sono le voci di questi personaggi a raccontare di lei. Delle sue difficoltà, dei suoi cedimenti, della sua rinascita, attraverso la cura ossessiva del corpo e la ricerca della solitudine, come cura, nemesi e vessillo di una vita che solo mediante la segregazione acquista significato. La negazione di ogni interazione umana ha il pregio inestimabile di consentire alla persona di focalizzarsi su se stessa e di fargli portare avanti un progetto senza che nessuno possa ostacolarlo, osteggiarlo, deriderlo. La natura diventa fonte di felicità e di realizzazione e i video che bucano l’etere diventano una sorta di diktat, qualcosa da seguire e da imitare. Lei si pone come un moderno guru, dispensando uno stile di vita estremo come panacea ai malesseri che derivano da una socialità corrotta, aberrante. Invece di subire il giudizio altrui, spesso crudele, lei vive in solitudine. Una solitudine che è tuttavia interrotta dalle sue interazioni con i social. I suoi video diventano virali, il suo stile di vita desiderato e spesso emulato.

Ed ecco che nasce la domanda: si è davvero soli se si è connessi? E la costante connessione è l’unica prova che si è vivi? Che esistiamo? Esistiamo anche se siamo eremiti, irraggiungibili e chiusi in noi stessi?

Sono questi i quesiti, irrisolti, che Crisalide lascia nel lettore. Temi davvero degni di riflessione, che ci riguardano da vicino. E un solo pensiero, che turba e infligge il dubbio: come vivere senza i social? Senza l’approvazione o il biasimo degli altri, che ci vedono attraverso uno schermo? E lo schermo: è un velo, un tramezzo, un filtro? O è una lente di ingrandimento capace di renderci conosciuti e riconoscibili?

Questi quesiti non troveranno soluzione durante la lettura, anzi si acuiranno e desteranno in voi altri dubbi. Ma una cosa è certa. Questa lettura vi prenderà completamente. La sua prosa scarna, quasi giornalistica, eppure intima e intrisa di disarmante sincerità. Le voci, confessioni senza veli di chi si è trovato ad osservare, ad essere testimone di qualcosa di grande. Ma anche di un’esistenza ordinaria, che si intreccia con altre esistenze ordinarie. E la figura di Lei, il suo fascino irresistibile, la sua forza, la determinazione ferma dei suoi intenti, che persegue con una dedizione al limite dell’umano. Una figura destinata a colpire e a fare segno. Perché ci culla nell’idea, oggettivamente vacua, che anche noi, se messi alle strette, reagiremmo con la stessa determinazione. E che se non fosse così, potremmo sempre darlo e vedere.

Ecco, in ultima istanza, la lezione: i social ci piacciono perché ci danno sempre un’attenuante, una via di fuga, una possibilità. L’importante è sembrare. L’essere viene dopo, miccia pronta ed esplodere. Il rumore, le macerie, basta renderle invisibili. I social ci piacciono perché coltivano l’ego, la narcisistica illusione di poter essere diversi da come siamo. E Crisalide ci piace perché ci illude, senza sforzo, di poter essere un giorno come Lei. Simbolo, faro, esempio.


Il romanzo

Una donna decide di tagliare i ponti con l’esterno, compresi amici, amanti e famiglia. Da piccola l’ansia la faceva tremare, ma ora si allena per diventare sempre più forte, per addestrarsi all’immobilità perfetta, piegando il suo corpo in posizioni plastiche, complesse. Comincia a mostrarsi solo attraverso i social, in video che la ritraggono immersa nella natura, sola, irraggiungibile e intangibile. E i suoi follower aumentano, scegliendo come lei di negarsi al mondo. Tre persone che l’hanno amata senza capirla raccontano la sua storia: Elliot, il suo primo seguace, che l’ha vista fortificare il suo corpo in palestra; la madre Bella, che l’ha cresciuta da sola e la ricorda come una bambina taciturna e nervosa; e Susie, collega e amica, che le ha offerto rifugio mentre ricostruiva la sua vita dopo una relazione tossica. Ipnotico e avvolgente, Crisalide è la storia di una donna che decide di sfidare lo sguardo degli altri, di ridursi all’essenziale e di trasformarsi in una musa ispiratrice, come una dea guerriera scolpita nella pietra. Con uno stile asciutto e poetico, Anna Metcalfe parla di passioni domate e di equilibrio ritrovato, di potere e autosufficienza, e della provocatoria libertà di sottrarsi a tutto, una metamorfosi energica e profonda capace di svelare potere e bellezza. Questo libro è per chi compone infinite liste per ritrovare la calma, per chi ha amato La vegetariana di Han Kang, per chi si è svegliato una mattina desiderando nuove abitudini, e per chi aspetta il momento in cui rimanere immobile e lasciarsi attraversare da un’onda di silenzio e respiro, per formulare una domanda immensa, universale.


L’autrice

Anna Metcalfe vive a Londra e insegna Scrittura creativa alla University of Birmingham. La sua raccolta di racconti Blind Water Pass (2016) è stata selezionata al SundayTimes Short Story Award, e nel 2023 l’autrice è stata nominata dalla rivista Granta tra i venti migliori giovani scrittori britannici. Crisalide è il suo debutto nella narrativa. 


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Pagine: 263
  • Prezzo: E 19,00