MARE DELLA TRANQUILLITA’ di Emily St. John Mandel

Viviamo in una simulazione, mi dissi mentre il tram si fermava a un isolato dal mio appartamento, ma sembrava così lontano… be’, così lontano dalla realtà, non mi veniva parola migliore. Non riuscivo a convincermene. Non ci credevo. C’era una pioggia programmata da lì a – diedi un’occhiata all’orologio – due minuti. Scesi dal tram e mi misi a camminare molto lentamente, di proposito. Avevo sempre amato la pioggia e il fatto di sapere che non veniva dalle nuvole non me la faceva amare di meno.


Trama

Nel 1912 Edwin St. John St. Andrew è un ragazzo di diciotto anni, che sente il peso dell’appartenenza alla nobiltà inglese. Dopo un dissidio con la sua famiglia, attraversa l’Atlantico, per giungere sino in Canada. Qui, incantato dalla bellezza della natura selvaggia, si inoltra in una foresta e, all’improvviso, sente le note di un violino e cade in uno stato di trance. È un’esperienza che lo sconvolge nel profondo e che cambierà per sempre la sua vita.
Nel 2203, una famosa scrittrice di nome Olive Llewellyn è in tour per presentare il suo libro. Sta viaggiando per tutto il pianeta, ma la sua casa è la Colonia Due lunare nei pressi del Mare della Tranquillità, un luogo di pietra bianca, di torri, guglie e di una inquietante bellezza artificiale. Nel suo romanzo più noto c’è una strana scena: un uomo suona il violino nel corridoio di un terminal aeroportuale, mentre gli alberi di una foresta si ergono intorno a lui.
Nel 2403, Gaspery-Jacques Roberts è un detective dell’Istituto del Tempo di Città Notturna, così, successivamente, è stata ribattezzata la Colonia Due. Viene assunto per indagare su un’anomalia spaziotemporale, sul caso di alcune vite sconvolte da una strana apparizione, tra cui quelle di Edwin St. John St. Andrew e Olive Llewellyn.
Emily St. John Mandel dimostra ancora una volta il suo straordinario talento letterario, la sua impetuosa capacità di affabulazione, giocando con le epoche, sfidando le leggi della fisica e raccontando una storia incredibilmente umana, commovente, che rimarrà a lungo nel cuore dei lettori.


Recensione

L’esistenza. Una goccia che in un attimo sfuma sul vetro, mentre piove. Ma anche una fitta, contorta, pullulante foresta. Alberi che svettano nel cielo, viottoli che si inerpicano sui fianchi delle colline, solitari, interminabili, dalla traiettoria sconosciuta. Un brivido di eccitazione e un rivolo di sudore sulla schiena.

La vita è un attimo ed è interminabile. Un attimo, un’eternità. Importantissimo per chi lo vive. E del tutto iniquo per chi la sta a guardare, una vita che appare in tutto e per tutto simile ad altre inutili vite.

Le vite di cui parla Mare della tranquillità appartengono ad individui comuni. Ciò che è eccezionale, inusitato, splendido è l’interconnessione che l’autrice suggerisce tra esistenze appartenenti ad epoche diverse.

L’idea del tempo come un formicaio. Epoche che si srotolano godendo del beneficio della contestualità. Come se solo un debole diaframma dividesse i diversi momenti della storia dell’umanità. E come se, aprendo quel diaframma, potessimo saltare da un secolo all’altro, andando avanti e indietro nella linea del tempo, che mai come in quest’ultima opera di Emily St. John Mandel appare artificiosa. Un’invenzione perniciosa. Un espediente per indurci a pensare a noi stessi come al frutto di un determinato momento, che perderebbe significato se dovessimo isolarlo dall’epoca della nostra vita.

E se davvero il tempo non esistesse, allora non esisterebbe nemmeno la nostra vita. La nostra vita potrebbe essere irreale, fittizia. Nient’altro che una simulazione.

Ad un certo punto il diaframma si rompe e lo sguardo vaga altrove nel tempo. Un’anomalia, che però è sufficiente all’Istituto del Tempo, nell’anno 2403, per indagare. Per scoprire perché nello stesso momento più esistenze appartenenti a tempi diversi si siano potute incontrare.

Un’indagine che può svolgersi solamente attraverso un viaggio nel tempo. A patto che nessuno ne alteri la linea. Perché niente è più pesante e insopportabile di sapere cosa accadrà nel futuro alle persone che abbiamo davanti.

Ed ecco che la genialità e la disarmante poetica dell’autrice ci sovrasta e ci schiaccia. Perché la sua penna è un incanto subdolo e affabulatore. Rovescia i nostri concetti. Distrugge le nostre certezze. Le leggi che regolano il mondo visibile, i nostri schemi mentali, sono inaspettatamente defraudati della loro veridicità. E ci confondiamo, mentre la nostra mente vaga nell’etere, passa velocissima sulla riga del tempo. Assiste ad avvenimenti impossibili e si lascia sedurre da idee eversive, allucinanti, pericolose. E se la nostra vita fosse una simulazione?

Di fatto già da molti decenni la vita si è spostata sulla Luna. Il mare della tranquillità ha accolto la prima colonia. Poi ne è venuta un’altra, che dopo un guasto si è trasformata nella città buia, dove la notte dura a lungo e rende tutto molto irreale. La Terra è lontana, ma si raggiunge in poche ore a bordo di roboanti aeronavi. Dall’alto la Terra è ancora una dea ipnotica e sensualissima. Un’ascesa nel verde e nel blu, che diventa indaco quando si lascia l’atmosfera e si entra nello spazio, nero e insondabile. La vita sulla Luna è artificiale e creata per ingannare l’uomo. L’uomo si lascia ingannare facilmente quando ne va della sua sopravvivenza.

Una simulazione nella simulazione, dunque. Ma pur sempre una vita, preziosa, unica e imprigionata in una capsula del tempo. Se non fosse per quell’anomalia che sembra volerci dire che in fondo siamo tutti legati a doppio filo, attaccati allo stesso cordone ombelicale. Uniti dalla stessa ferocia e dalla stessa pietà.

Mare della tranquillità è un romanzo che incanta e che distrugge. E’ uno spiraglio sul possibile futuro dell’uomo e uno spoiler coraggioso e terribile sul destino delle regole fondamentali della fisica, quelle che ci vogliono prigionieri del tempo e dello spazio e che ci tengono attaccati alla vita, da trascorrere dentro una parentesi delimitata da un inizio e una fine.

Mare della tranquillità è la scoperta di altri insondabili mondi. E un viaggio dentro l’uomo, le sue paure, i suoi limiti, la sua insopprimibile voglia di riparare, correggere, consolare, guarire.

Ed è l’estasi di una scrittura che dona le ali. Che ci innalza sopra il mondo conosciuto, che ci apre gli occhi. Che ci dona coraggio e ci lascia a vagare nella palude del dubbio e dell’oblio.


L’autrice

=4Emily St. John Mandel è autrice di cinque romanzi tra cui Stazione undici, finalista al National Book Award, al PEN/Faulkner Award e da cui è stata tratta una serie televisiva, e L’hotel di cristallo (La nave di Teseo 2021) tradotto in ventitré lingue, selezionato da Barack Obama come uno dei suoi libri preferiti del 2020 e candidato a numerosi premi. Vive a New York.


  • Casa Editrice: La Nave di Teseo
  • Traduzione: Elena Malanga
  • Collana: Oceani
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 253

LA PORTALETTERE di Francesca Giannone

Quanto la divertiva sapere che, alla sua uscita di scena, sarebbero seguiti i consueti commenti. Le sembrava di sentirli, quei due, che malignavano su una femmina che si faceva un goccetto a quell’ora del mattino. “Roba dell’altro mondo” avevano detto una volta.


Trama

Salento, giugno 1934. A Lizzanello, un paesino di poche migliaia di anime, una corriera si ferma nella piazza principale. Ne scende una coppia: lui, Carlo, è un figlio del Sud, ed è felice di essere tornato a casa; lei, Anna, sua moglie, è bella come una statua greca, ma triste e preoccupata: quale vita la attende in quella terra sconosciuta?
Persino a trent’anni da quel giorno, Anna rimarrà per tutti «la forestiera», quella venuta dal Nord, quella diversa, che non va in chiesa, che dice sempre quello che pensa. E Anna, fiera e spigolosa, non si piegherà mai alle leggi non scritte che imprigionano le donne del Sud. Ci riuscirà anche grazie all’amore che la lega al marito, un amore la cui forza sarà dolorosamente chiara al fratello maggiore di Carlo, Antonio, che si è innamorato di Anna nell’istante in cui l’ha vista.
Poi, nel 1935, Anna fa qualcosa di davvero rivoluzionario: si presenta a un concorso delle Poste, lo vince e diventa la prima portalettere di Lizzanello. La notizia fa storcere il naso alle donne e suscita risatine di scherno negli uomini. «Non durerà», maligna qualcuno.
E invece, per oltre vent’anni, Anna diventerà il filo invisibile che unisce gli abitanti del paese. Prima a piedi e poi in bicicletta, consegnerà le lettere dei ragazzi al fronte, le cartoline degli emigranti, le missive degli amanti segreti. Senza volerlo – ma soprattutto senza che il paese lo voglia – la portalettere cambierà molte cose, a Lizzanello.
Quella di Anna è la storia di una donna che ha voluto vivere la propria vita senza condizionamenti, ma è anche la storia della famiglia Greco e di Lizzanello, dagli anni ’30 fino agli anni ’50, passando per una guerra mondiale e per le istanze femministe.
Ed è la storia di due fratelli inseparabili, destinati ad amare la stessa donna.


Recensione

Un esordio così non capita tutti i giorni.

Francesca Giannone, esordiente assoluta al netto della pubblicazione di alcuni racconti su diverse riviste letterarie, riesce nell’intento di regalare ai lettori un’opera ricca, emozionante, dove i personaggi si muovono con grande naturalezza, a disegnare una trama che non si dimentica, frutto della memoria, della lotta, della distruzione e dell’estasi dell’amore, dell’amicizia che supera le barriere, della potenza dei legami di sangue e dell’appartenenza, un filo invisibile che non si spezza.

Una prosa bella, amalgamante, che avvolge in una coperta morbida senza invitarti al riposo. Lasciandoti teneramente all’erta, con il desiderio di entrare ancora più a fondo in una storia che racconta inevitabilmente anche un pezzo di noi stessi.

Siamo negli anni 30, in Salento. Una piccola comunità quella di Lizzanello, dove tutti si conoscono.

Carlo Greco e la moglie Anna Allavena, ligure di nascita, vi fanno ritorno. Lui reduce dall’esperienza dell’emigrazione, lei in qualche modo costretta ad andare al Sud, per seguire il marito. Per Anna non sarà facile integrarsi. Per tutti sarà e rimarrà sempre “la forestiera”. Perché dice ciò che pensa. Perché fa ciò che le piace fare. Perché osa pensare con la sua testa, andando contro i pregiudizi. Anna è prigioniera di abitudini che non capisce e di una lingua che le appare incomprensibile.

Antonio, l’amato fratello di Carlo e Agata, sua moglie, cercano di starle vicino. Antonio sente immediatamente una comunanza fortissima con Anna, che non tarderà a svelare la sua vera natura. Le offrirà sempre comprensione e complicità. Agata non riuscirà nell’intento, schiacciata dai luoghi comuni di una mentalità ancora arcaica.

Il distacco con la gente di Lizzanello si fa enorme quando Anna diventa portalettere. Un mestiere da uomo, che nessuna donna ha mai svolto. Un mestiere che Anna eserciterà con dedizione assoluta, riuscendo a poco a poco a spianare le asperità e le incomprensioni con la gente del posto.

La storia di Anna e di Lizzanello si dipana fino agli anni 50, passando per la guerra e per le istanze che gridano al cambiamento. Intorno a lei le nuove generazioni coglieranno le opportunità e lotteranno per affermare o difendere il proprio posto, nei luoghi e nel cuore di chi amano.

L’Italia della rinascita, del boom economico lambisce anche il Salento, eppure lascia immutati certi atteggiamenti e soprattutto i sentimenti forti, quelli che uniscono o che dividono, incalzati inevitabilmente dalla forza dei legami di sangue, che non sottostanno alla menzogna o all’indifferenza.

Anna è una figura indimenticabile. Una donna che osa segnare una strada mai battuta. Che capisce il valore delle donne, una ricchezza che non dipende da chi sta loro accanto, ma che nasce delle loro capacità, dalla loro forza e della loro consapevolezza. Dal coraggio di cambiare, dalla volontà di non abbassare lo sguardo. Sfidando le leggi non scritte che soffocano come catene. I pregiudizi e le credenze, che ingabbiano le donne del sud.

La portalettere è un romanzo che farà molto parlare di sé. Bello e coinvolgente. Una lettura che riesce ad interpretare al meglio il ruolo del romanzo come mezzo di intrattenimento, come motore della memoria, come fonte cristallina e fresca di riflessione e di ripensamento. Un tuffo nel passato, una rilettura della storia delle donne che lancia un fascio di luce sul presente, sempre bisognoso di un gancio che lo intrattenga verso ciò che è stato. Per poter vedere con maggiore chiarezza ciò che potrà essere o che sarà.

I miei complimenti all’autrice, chiara interprete della necessità del lettore di ritrovare le proprie radici, alla ricerca di un sentimento di appartenenza e di un motivo per ripensare al passato, per ripercorre la strada aspra e erta che ci ha portati fin qui.


L’autrice

Francesca Giannone, pugliese, si è laureata in Scienze della Comunicazione e ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia. Trasferitasi a Bologna, ha curato la catalogazione dei trentamila volumi della Associazione Luigi Bernardi e ha frequentato il corso biennale di scrittura della Bottega di Narrazione «Finzioni». Ha pubblicato vari racconti su riviste letterarie, sia cartacee sia online. Tornata a vivere a Lizzanello, il suo paese di origine in Salento, ha continuato a scrivere e a coltivare l’altra sua grande passione, la pittura; come si può vedere nel suo sito francescagiannoneart.com, il suo soggetto d’elezione sono le donne.


  • Casa Editrice: Editrice Nord
  • Genere: narrativa italiana
  • Pagine: 414

L’IMPOSTORE di Martin Griffin

Raccontare per primo la tua storia non la rende per questo più vera.


Trama

Per Remie Yorke questo è l’ultimo turno al Mackinnon Hotel prima della chiusura invernale. L’indomani potrà finalmente lasciare la Scozia e godersi il tepore di Santiago del Cile. Sempre che la tempesta di neve non blocchi ogni collegamento col mondo esterno… Mentre le temperature precipitano e le linee telefoniche si interrompono, un uomo ferito chiede rifugio. Si tratta dell’agente Don Gaines, rimasto coinvolto in un terribile incidente. L’unico altro sopravvissuto? Il detenuto che la sua squadra stava trasportando. Bisogna isolare l’hotel, controllare ogni via di uscita e mettere in sicurezza gli unici due ospiti dell’albergo. Remie non capisce esattamente cosa stia succedendo, nonostante ciò l’unica cosa che può fare è mettersi a disposizione di quell’uomo; in fin dei conti è un poliziotto. Ma poco dopo arriva un secondo sconosciuto: anche lui è ferito e anche lui dichiara di essere Don Gaines. Stessa uniforme, stesso nome, stesso tesserino. Qualcuno sta mentendo e Remie, senza alcuna via di fuga, dovrà scoprire chi dei due sta dicendo la verità prima che sia troppo tardi. Perché se non la ucciderà il freddo, lo farà uno di loro… Un thriller al cardiopalma ambientato nelle aspre Highlands scozzesi. Un esordio brillante e avvincente nella migliore tradizione del giallo, da Daphne du Maurier a Tana French, da Stephen King a Lucy Foley.


Recensione

Un thriller che si consuma nello spazio di una notte e che ha tutte le carte in regola per atterrire il lettore solleticando le sue paure ataviche. La natura, imbizzarrita e incontrollabile, una forza inesauribile che sa come ridurre l’uomo ai minimi termini.. E gli abbagli della mente, gli inganni della nostra coscienza, che si appiglia spesso a falsi segnali, pur di vedere dipinto un quadro che sia rassicurante.

Il talento di Martin Griffin, al suo esordio, sta proprio nella capacità di accostare magistralmente questi due temi, dando vita ad un romanzo vivo, crudele, ammaliatore, dato alla luce all’esatto scopo di produrre in chi legge il brivido dell’inatteso e dell’inattendibile.

Facile per chi legge mettersi nei panni di Remie Yorke, una trentenne che nella vita ha combinato poco o niente, una vita spesa a proteggere il fratello minore dalle insidie che lo hanno allontanato a poco a poco dalla scuola, dalla famiglia, dai valori veri, inghiottendolo dentro all’infido imbuto della malavita organizzata.

Remie ha speso tutte le sue energie per raddrizzare la vita del fratello Cam, senza riuscirci. Lui adesso è morto. Ha perso la vita in carcere, in modo misterioso.

E’ solo per lui che Remie fa il portiere notturno al Mackinnon Hotel, nelle Highlands scossezi. Un luogo isolato, non scevro di quella bellezza aspra e selvaggia che caratterizza il territorio in cui sorge, proprio vicino al carcere. Ma ora che suo fratello non c’è più, Remie ha deciso di lasciare quel lavoro per andare in Cile, a inseguire i sogni infranti di Cam.

Stanotte è la sua ultima notte al Mackinnon Hotel. Domattina salirà in macchina diretta all’aeroporto. L’albergo è vuoto. Tutto il personale se n’è andato, e tornerà solo in primavera, quando l’albergo aprirà di nuovo.

Ma quella notte accadrà l’inatteso. Un ospite busserà alla porta in cerca d’aiuto dopo un incidente. E, poco dopo, un altro ospite suonerà il campanello. Entrambi indossano la divisa della polizia, entrambi dicono di essere lo stesso uomo, l’agente Gaines. Ma è subito chiaro che solo uno di loro è chi dice di essere. L’altro è un feroce assassino, in fuga dal carcere.

“L’impostore” è un thriller decisamente ad alta tensione. Buio, claustrofobico, scritto per distruggere ogni certezza del lettore, che non saprà più affidarsi alla propria razionalità per trovare il bandolo della matassa.

I labirinti che ottenebrano la mente umana, che confondono i nostri preconcetti e le nostre fondamenta razionali, si fondono con le urla della natura selvaggia, che detta legge e sottomette tutto e tutti. Sullo sfondo l’eco di ricordi dolorosi, di attimi che non potranno più tornare, di legami che si spezzano e che fanno male.

Una notte lunga, pericolosa, infida e piena di sorprese, metterà alla prova Remie e si aprirà verso prospettive inattese. E noi, con lei, traffitti da brividi di freddo e di paura, proveremo a scoprire chi è l’impostore e cosa vuole davvero.

Un’ottima prova per Griffin, che dimostra di saper ammaestrare le paure più subdole dell’uomo e di farne materia per un’esperienza di lettura a tutto tondo.

Un romanzo da leggere davanti al fuoco con una tazza di buon thé in mano. Per combattere il freddo della neve che scende copiosa e turbinante e di quel brivido lungo la schiena che non vuole andarsene.


L’autore

Martin Griffin è al suo entusiasmante esordio nella narrativa poliziesca. Prima di dedicarsi alla scrittura, ha svolto diversi lavori, tra cui quello di vicepreside. Vive a Manchester con la moglie e la figlia.


  • Casa Editrice: Giunti Editore
  • Traduzione: Adria Tissoni
  • Genere: thriller
  • Pagine: 287
  • in libreria dal 4 gennaio 2023

LA MASCHERA DI MARMO di Jean-Christophe Grangé

“Non preoccuparti. Lo prenderemo. E’ solo che non siamo abituati a cercare i veri colpevoli”. Aveva ragione; non erano agenti né investigatori. Erano persecutori, carnefici autodidatti che sapevano solo sfondare porte e tirare per i capelli i sospettati che venivano serviti loro su un vassoio. Questa volta era diverso. Avevano a che fare con un vero criminale. Un predatore che, a sua volta, sapeva come sfuggire agli inseguitori.


Trama

Germania, fine anni Trenta. I corpi senza vita delle mogli di due gerarchi nazisti vengono ritrovati tra le luci sfavillanti di una Berlino mondana, inconsapevole della guerra imminente. Le indagini sono affidate al brutale e spietato ispettore Franz Beewen. L’alto ufficiale della Gestapo si mette subito all’opera e segue i primi indizi, che lo conducono nello studio di Simon Kraus, uno psicanalista specializzato nell’interpretazione dei sogni. Potrebbe essere lui ad avere la chiave per capire chi sia l’assassino. Le vittime erano sue pazienti, ed erano entrambe tormentate dall’incubo di essere inseguite da un uomo con il volto coperto da una maschera di marmo. Una figura che per Kraus è la personificazione di paure e traumi, ma che, alla luce dei fatti, potrebbe essere più reale di quanto si immagini. C’è qualcuno, però, che ostacola Beewen e Kraus nel cammino verso la verità. E non è solo l’assassino. Perché i due stanno cercando risposte proprio là dove il partito nazista nasconde i suoi segreti più torbidi e inconfessabili. Ma non si fermeranno davanti a nulla. Anche se questo vorrà dire mettere in dubbio i valori della patria.
Ogni romanzo di Jean-Christophe Grangé conquista il podio delle classifiche francesi. Con il bestseller I fiumi di porpora ha ottenuto il successo internazionale, confermato anche in Italia dove i suoi libri hanno venduto oltre 350.000 copie. Nella Maschera di marmo, Grangé torna con una trama avvincente e l’ambientazione originale e conturbante della Germania nazista. Un thriller cinematografico che sorprende a ogni pagina, come sa fare solo un vero maestro della suspense.


Recensione

Jean-Christophe Grangé non è certo un autore al quale manchino la stoffa e il coraggio di ambientare un thriller in un periodo storico complicato e dalle mille sfaccettature. Grangé ha talento da vendere, ha una penna prolifica e profonda e quella fantasia sfacciata e tentacolare che gli ha permesso di confezionare molti capolavori di genere, successi mondiali che tuttavia, a mio avviso, non hanno trovato il meritato riscontro in Italia.

Personalmente amo la sua penna. Precisa, affilata, mai superficiale, bensì prodiga di frequentissime incursioni dentro la psicologia umana, della quale sa interpretare ogni movimento e ogni movente.

Grangé non è quel tipo di autore che affida al sangue le sue sfide. Al contrario, Grangè ha dalla sua la capacità di costruire trame di ampissimo respiro, dove il thriller è un po’ una comparsa. Non il motore principale dell’opera. Bensì un particolare, che incidentalmente muove i suoi personaggi alla ricerca di un colpevole. Ma dentro alla trama c’è sempre altro e questo ulteriore elemento è proprio lo studio della mente umana. Delle sue aberrazioni, dei sui tormenti, delle sue mire. Elementi che arrivano, in qualche modo, a spingere qualcuno alla prevaricazione, alla violenza.

Un preambolo doveroso, a mio avviso, per farvi capire che quando si parla di un romanzo di Grangé si è costretti ad entrare nella storia con tutte e due le gambe e occorre tenersi pronti ad affondarvi fino al collo. La trama vi prenderà in un abbraccio morbido e pericoloso e vi costringerà a scendere a patti con le vostre paure, i vostri desideri più intimi, pronti a dover ammettere che ognuno di noi può ritrovarsi in balia di sentimenti ambigui, subdoli, avversi, tali da spingere la nostra mente al limite di ogni legittimo pensiero.

Ma veniamo a questo romanzo. Siamo in Germania, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Hitler ha in pugno le sorti di una nazione che desidera sopra ogni cosa prendersi una rivincita, dopo la bruciante sconfitta del primo conflitto mondiale. La Germania rivendica un posto in prima fila nel mondo, un posto che ritiene gli spetti di diritto. Il popolo germanico deve essere all’altezza di questo compito, a costo di ripulirlo dai rami secchi, dai pesi morti, rendendolo forte, inattaccabile, geneticamente perfetto.

Ma il popolo ha paura. La guerra incombe, le milizie hitleriane diffondono terrore e incertezza. La violenza, la prevaricazione sembrano coinvolgere tutti, nessuno escluso. Persino chi opera al servizio delle S.S, della Gestapo, a volte vacilla al pensiero di quella violenza della quale è spesso artefice e del terrore che serpeggia tra la gente.

In questo clima di profonda incertezza alcune mogli di potenti gerarchi nazisti iniziano a morire. Morti violente, per mano di un fantomatico uomo mascherato. Morti scomode, che arrivano a colpire ai fianchi i vertici del potere e a mettere in qualche modo in dubbio la sua legittimità, che da un lato attrae come miele per le api ma dall’altro terrorizza chiunque vi si avvicini, proprio perché non ha limite né remore.

Dall’altra parte della barricata troviamo tre personaggi che non potrebbero essere più diversi tra loro. Un agente della Gestapo, arruolatosi per obbedire ad un vago senso di rivincita, ma che non sa riconoscersi a pieno nel ruolo del cattivo. Uno psicologo dal passato dubbio e dal presente decisamente fuori dalle righe. Una nobile caduta in disgrazia, che si è votata al servizio dei deboli e dei malati. Tre personaggi incredibili, veri, caratterizzati alla perfezione, ognuno dei quali incarna un pezzetto dello spirito tedesco dell’epoca, che Grangè racconta con grande partecipazione emotiva e enorme rispetto della verità storica, cogliendo ciò che non è sempre possibile cogliere in un libro di Storia.

Intorno a loro una Berlino ormai priva di speranza, che si china sotto il peso della guerra, persa in un destino del quale non si sanno più riconoscere i confini, le logiche e gli intenti.

La Storia di quel periodo si erge a enorme protagonista di questo romanzo e Grangé si rivela un burattinaio impeccabile, abile nel saper interpretare non solo gli eventi storici ma anche gli intimi pensieri della popolazione di allora, quale che sia il suo rango.

Una storia che già conosciamo ma che vale la pena rivedere e riconsiderare, nelle sue sfaccettature più intime. Grangè costruisce un vero capolavoro storico, che descrive con acume, imparzialità e grande trasporto emotivo.

Un thriller corposo, dunque, che non si legge certo nello spazio di una notte, ma che tuttavia scivolerà velocemente tra le dita del lettore, complice la scrittura coinvolgente e la costante curiosità che l’autore instilla nel lettore.

Una lettura consigliatissima per gli amanti della storia recente, ma anche meravigliosamente confezionata per chi ama cogliere nel thriller le eco dei tasti che muovono l’animo umano e che lo rendono artefice o succube del proprio destino.


L’autore

Jean-Christophe Grangé è autore di romanzi di grandissimo successo che hanno ampliato i confini del thriller tradizionale. I suoi libri, tradotti in tutto il mondo e venduti in milioni di copie, sono pubblicati in Italia da Garzanti. Spesso sono stati portati sul grande schermo, e I fiumi di porpora ha vinto il premio Grinzane Cinema 2007 per il miglior libro da cui è stato tratto un film.


  • Casa Editrice: Garzanti
  • Traduzione: Doriana Comerlati e Giuseppe Maugeri
  • Genere: thriller
  • Pagine: 713

RESPIRA di Joyce Carol Oates

Perchè cos’è la scrittura se non un modo per distrarre il proprio sé da ciò che è essenziale: la vita, la morte.


Trama

Michaela e Gerard, originari di Cambridge, nel Massachusetts, si stabiliscono a Santa Tierra, nel New Mexico, un mondo diverso, con paesaggi bellissimi e inquietanti. Gerard ha ottenuto
un’importante borsa di studio per le sue ricerche e Michaela l’ha seguito senza esitare, come ha sempre fatto fin dal momento in cui l’ha conosciuto. Quando Gerard viene colpito da una misteriosa malattia che inizialmente viene mal diagnosticata, le loro vite vengono sconvolte. A trentasette anni, Michaela deve affrontare la terrificante prospettiva del rimanere vedova e di perdere l’amato marito e compagno, la cui influenza è stata fondamentale nella sua formazione e nel plasmare la sua identità.
Michaela si prende disperatamente cura di Gerard nei suoi ultimi giorni, rendendosi però conto che l’amore per suo marito, per quanto feroce e disinteressato, non è abbastanza per salvarlo e che la morte va oltre la sua comprensione. Il lutto provoca un vero e proprio sdoppiamento in Michaela, con il suo alter ego disposto a tutto pur di ricongiungersi al marito, desideroso di seguirlo fino alla fine.
Con un racconto vivido, doloroso e sentito, che mescola sogno e realtà, Joyce Carol Oates descrive la traiettoria di sofferenza di chi resta ed è costretto a resistere alla perdita e a combattere per ritrovare il proprio posto nel mondo.


Recensione

Ancora mi chiedo quale penna possa essere stata capace di riempire oltre 400 pagine sul tema della malattia, della morte, del lutto. E quale autore sia capace di lanciarsi consapevolmente in una simile maratona letteraria. A descrivere l’agonia di chi amiamo, consumarsi inesorabilmente sotto i colpi della malattia, nell’attesa della morte che cerchiamo di allontanare con tutte le nostre forze ma che sappiamo essere inevitabile. A scandagliare i sentimenti, le paure di chi rimane a guardare. Uno spettacolo orribile e crudele con un finale già scritto che ci spaventa fino al midollo. Che ci annienta. Che non possiamo, non sappiamo accettare. E che ci travolge completamente, lasciandoci deliranti, ottenebrati, instupiditi, abbrutiti nel corpo e nella mente.

400 pagine che scavano su temi che sembrano così essenziali, così difficili da sviscerare, così ostili e così ostici. Senza lasciare niente indietro. Niente di inespresso. Niente di sottointeso.

Joyce Carol Oates offre al mondo una lezione di composizione su un argomento inenarrabile come la malattia e la morte. Un’opera rotonda, crudele, difficile da leggere e al tempo stesso meravigliosamente scritta, profonda, illuminante, democratica, omnicomprensiva.

La morte attrae, come una calamita. La morte ha una sconfinata capacità di farci immedesimare negli attori che la stanno recitando. Ed infatti una volta aperto, questo libro non ti lascia più andare. Semina una nebbia obliante, sparge il seme del lutto, ovunque. L’odore della morte, l’oppressione della fine imminente, l’orrore di quell’ultimo respiro che ha in sé l’eco terrificante della vita che cessa di essere. Il corpo che muore. E la ricerca affannosa dell’anima. Di qualcosa che sopravviva alla morte corporale.

“Respira” in realtà è un imperativo. Respira, così non morrai. Respira, e non mi lascerai sola. Respira, sconfiggi la morte. Non posso vivere senza di te, respira. Non farmi questo torto, respira. Respira, non morire. Respira, continua a farlo per sempre. Trova un nuovo ritmo, e il tuo respiro sarà l’aria che muove la mia vita. Ossigeno che nutre la mia esistenza, che sarebbe perduta senza di te.

“Respira” è la storia di Michaela, che affronta la malattia del marito Gerard, un uomo che considera il suo solo punto di riferimento.

La malatta giunge repentinamente a deviare il corso della vita di Gerard, che in poche settimane si indebolisce e diviene preda dei farmaci, sempre più perduto nelle nebbie degli oppiacei che rendono sopportabile il dolore. Una brutta copia di se stesso che perde ogni giorno memoria di sé.

Michaela è impreparata ad affrontare il calvario della malattia ma sa che la morte presto prenderà Gerard con sé. Michaela teme per Gerard, ma teme anche per se stessa, consapevole che non potrà vivere senza il marito. La sua è una sconfitta annunciata. La sua preghiera è tanto accorata quanto inefficace contro il male che attanaglia Gerard e che lo stordisce e lo allontana sempre più dalla vita.

Michaela è succube del vertiginoso declino della salute di Gerard. E quando l’inevitabile accade precipita in una spirale sempre più stretta. La sua vita perde il baricentro e sbanda pericolosamente, attratta dall’idea di seguire Gerard, in una sorte di ottusa forma di fedeltà assoluta al matrimonio e alla sua condizione di moglie. Voler morire. E al tempo stesso aggrapparsi all’idea che Gerard sia da qualche parte, che possa vederla, finanche toccarla.

La discesa nella follia di Michala sembra inevitabile. Eppure la vita sa riprendere i propri spazi.

“Respira” è un’opera mastodontica sulla morte e sul lutto, scritta con una mano lucida e impietosa, che riesce a toccare tutti i punti più sensibili che la morte lascia scoperti su di noi.

La paura di non poter affrontare un evento che è inevitabile. Il dolore folle di lasciare chi amiamo ma anche l’egoismo insensato di dover fare a meno di chi abbiamo da sempre al nostro fianco. Una sorta di tradimento, che la coppia si fa a vicenda: chi muore tradisce andandosene prima del tempo. Chi resta tradisce non morendo, rimanendo in vita.

Jyoce Carol Oates dimostra, una volta di più l’inesauribilità della sua vena narrante. Una penna illuminata, infallibile, che trova da dire su qualsiasi argomento, anche il più complesso. Che scandaglia da ogni angolatura possibile, dando voce a tutto lo spettro di sentimenti che questo scatena in noi. Martellante senza essere insistente. Impietosa senza essere inopportuna. Forte, cruciale, una lama affilata che però è tenera e conciliante, e trova il modo di perdonare l’uomo e le sue aberrazioni.

Un romanzo non semplice da leggere. Ma una indubbia fonte di riflessione sul fine vita, sulla perdita e sul significato della nostra esistenza.


L’autrice

Joyce Carol Oates ha ricevuto numerosi importanti riconoscimenti, tra i quali ricordiamo: la National Medal of Humanities, il National Book Critics Circle Ivan Sandrof Lifetime Achievement Award, il National Book Award e il PEN/Malamud Award for Excellence in Short Fiction. Autrice enormemente prolifica, ha scritto alcune delle opere più significative del nostro tempo. Per La nave di Teseo ha pubblicato Ho fatto la spia (2020), Pericoli di un viaggio nel tempo (2021), La notte, il sonno, la morte, e le stelle (2021), L’altra te (2022) e le nuove edizioni di Una brava ragazza (2020), La figlia dello straniero (2020), Blonde (2021) e Sorella, mio unico amore (2022). Ha insegnato alla Princeton University ed è membro dell’American Academy of Arts and Letters dal 1978.


  • Casa Editrice: La Nave di Teseo
  • Collana: Oceani
  • Traduzione: Carlo Prosperi
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 423

SLEEPWALK di Dan Chaon

Il problema, quando tieni tutte le parti della tua vita accuratamente separate e impacchettate, è che diventa più difficile fare un passo indietro e osservare il quadro generale. E’ un pensiero terribile immaginare che tutti i pezzi che hai messo sottochiave, tutto ciò che consideravi a sé stante, potrebbe invece essere collegato. Potrebbe formare uno schema.


Trama

Will Bear ha cinquant’anni e non ha mai avuto un vero lavoro, mai pagato le tasse, mai avuto una relazione seria. Si è costruito una vita senza radici né legami, a parte l’amica d’infanzia, Experanza; e a bordo del suo camper, la Stella Polare, attraversa un’America senza più leggi, controllata da droni e milizie private, svolgendo losche commissioni per conto di una fantomatica società di servizi, in compagnia di un vecchio cane da combattimento affetto da stress postraumatico. Un giorno, su uno dei suoi tanti cellulari, riceve la telefonata di una certa Cammie, che gli dice di essere sua figlia e di essere in pericolo. Nonostante i sospetti iniziali, Will si fida di lei. E mentre sente fiorire dentro di sé un autentico affetto paterno, comincia a dubitare di tutto e di tutti, diradando la nebbia che avvolge il suo passato e la sua identità. Dopo La volontà del male e Il riflesso del passato, Dan Chaon torna con un romanzo di frontiera, una fuga rocambolesca e allucinata, una sleepwalk da un mondo dilaniato da controllo sociale, pandemie e cambiamento climatico. E alternando bonaria ironia e malinconica consapevolezza, posa il suo sguardo sull’amore, l’empatia e l’istinto, forze primordiali in grado di regalare sempre un’altra possibilità, anche quando tutto sembra perduto.

Questo libro è per chi butta una monetina in una fontana affidandosi a una magica speranza, per chi va matto per Il grande Lebowski dei fratelli Coen, per chi si diverte a regalare saggezze agli sconosciuti incontrati per strada, e per chi ogni tanto vorrebbe risvegliarsi da un lungo sonno su un’isola deserta, e ricominciare tutto daccapo.


Recensione

In un futuro neanche troppo lontano, in cui l’uomo vive attorniato e assediato da intelligenze artificiali dalle sembianze antropomorfe che controllano tutto e tutti, Billy conduce un’esistenza border line. Lavora sotto mentite spoglie al soldo di sedicenti organizzazioni che gli affidano lavori sporchi, persino omicidi su commissione.

Vive in un camper insieme a Flip, il suo cane, e si è costruito una vita che apparentemente sembra dargli soddisfazione e autonomia.

La sua storia, del resto, è problematica. E’ cresciuto con una madre disamorevole, che lo ha trascinato dentro storie illegali e pericolose, insegnandogli a sopravvivere in un mondo dove esistere è già una scommessa e dove la vita e la morte sembrano divise da una linea sottilissima. Vive sospeso al niente, come se non esistesse, dato che la sua vita sfugge continuamente alle maglie della giustizia e della legge.

Nonostante tutto, a suo modo Billy è un uomo empatico. La corazza che le esperienze gli hanno cucito addosso ha ancora spiragli entro i quali entra e esce una corrente di umanità e di senso morale. Il segreto, come spesso accade, è tenere sotto controllo la mente, i ricordi, le sensazioni. Tutto ciò, insomma, che potrebbe innescare in lui la necessità di una riflessione, di un confronto. Tutto quello che potrebbe fargli riavvolgere il nastro della sua vita, fino a scandagliare il perché di quella sua vita sotto traccia, constantemente alle prese con la violenza e il sangue.

Ma ecco che qualcuno bussa sulla sua spalla. E che innesca un processo irreversibile, così forte e inarrestabile da mettere in discussione tutto. E all’orizzonte spunta un complotto di dimensioni gigantesche. Che mette Billy sotto il riflettore di fantomatiche figure che praticano forme insolite di eugenetica.

La sua corsa lungo le strade americane diventa una vera e propria fuga. E per ogni chilometro macinato spunta un ricordo, una consapevolezza e una amara verità, che porta Billy a riconsiderare tutta la sua vita.

Valori come l’amicizia, la libertà, l’onestà saranno travolti da eventi giganteschi e assurdi. E nuove forme di schiavitù si materializzeranno e distruggeranno l’intero mondo di Billy, un puro , sebbene dentro a confini discutibili.

Dan Chaon costruisce un angolo di mondo distopico ma anche denso di speranza, in cui l’uomo ricostruisce la sua natura di essere sociale e benevolo prendendo le distanze da tutto ciò che vuole sperzonalizzarlo e manipolarlo.

Una storia che fa affiorare l’umanità anche dove regna il disordine e l’egoismo più duro. Un romanzo che sottolinea in modo perfetto l’inossidabile capacità dell’uomo di ritrovare se stesso e la sua natura anche dentro ad un destino che vuole schiacciarlo e ridurlo a mera materia senza anima.

La scrittura di Chaon è perfetta. Intima, introspettiva, piena di sensibilità. Interpreta magistralmente pensieri, speranze, paure di un uomo inconsapevole, a cui la vita ha negato tutto. E getta un cono di luce dentro la nostra società, che pare avviarsi su sentieri che poco si discostano dalla realtà che l’autore narra in questo romanzo. Focalizzando la prepotenza del controllo e il potere del conformismo. L’appiattimento della personalità e la fugacità dei ricordi, labili ali che sanno essere selettive, ingannatrici e subdole. Capaci di disegnare un quadro che sia accettabile, senza la pretesa di essere plausibile.


L’autore

Dan Chaon vive a Cleveland, Ohio e insegna all’Oberlin College. I suoi racconti, Among the Missing (di prossima pubblicazione per NNE), sono stati finalisti al National Book Award, mentre i romanzi successivi, tra cui Il riflesso del passato, hanno ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui lo Story Prize e l’Academy Award in Literature. Suoi scritti sono apparsi in Best American Short Stories, The Pushcart Prize Anthology, e The O. Henry Prize Stories. La volontà del male, finalista al Shirley Jackson Award, è stato un bestseller negli Stati Uniti e in tutti i paesi europei.


  • Casa Editrice: Enne Enne Editore
  • Traduzione: Silvia Castoldi
  • Genere: narrativa straniera
  • Pagine: 389

LA CASA DELLE LUCI di Donato Carrisi

“I bambini possiedono doti misteriose” disse. “Ma a volte i loro non sono doni, bensì maledizioni.

Un grande maestro sa individuare i primi. Uno psicologo infantile dovrebbe saper distinguere la seconde e io non so se ne sono ancora capace”.


Trama

Nella grande casa spenta in cima alla collina, vive sempre sola una bambina… Si chiama Eva, ha dieci anni, e con lei ci sono soltanto una governante e una ragazza finlandese au pair, Maja Salo. Dei genitori nessuna traccia. È proprio Maja a cercare disperatamente l’aiuto di Pietro Gerber, il miglior ipnotista di Firenze, l’addormentatore di bambini.
Da qualche tempo Eva non è più ­davvero sola. Con lei c’è un amichetto immaginario, senza nome e senza volto. E a causa di questa presenza, forse Eva è in pericolo.
Ma la reputazione di Pietro Gerber è in rovina e, per certi versi, lo è lui stesso. Confuso e incerto sul proprio destino, Pietro accetta, pur con mille riserve, di confrontarsi con Eva. O meglio, con il suo amico immaginario. 
È in quel momento che si spalanca una porta invisibile davanti a lui.
La voce del bambino perduto che parla attraverso Eva, quando lei è sotto ipno­si, non gli è sconosciuta.
E, soprattutto, quella voce conosce Pietro. Conosce il suo passato, e sembra possedere una verità rimasta celata troppo a lungo su qualcosa che è avvenuto in una calda estate di quando lui era un bambino.
Perché a undici anni Pietro Gerber è morto.
E il misterioso fatto accaduto dopo la sua morte ancora lo tormenta.


Recensione

L’infanzia è un contenitore di mistero, crudeltà, chiaroveggenza. Un mondo effimero, che ad un certo punto implode, svanisce e spesso lascia dietro di sé nient’altro che una nebbia indistinta, bisbigli che diventano sempre più incomprensibili, echi di un passato che da adulti non riusciamo più a ricordare. Un mondo che non cessa di suscitare curiosità e del quale non sappiamo mai abbastanza.

Il mondo dell’infanzia è ormai il consolidato palcoscenico che Donato Carrisi ha scelto di calcare con i suoi ultimi successi editoriali. E “casa”, una parola chiave che si rincorre nei titoli di quella che a tutti gli effetti può essere considerata una trilogia. Una combinazione che è una vera e propria miccia, pronta ad esplodere.

“Casa”, sinonimo di luogo sicuro, confortante, una sorta di grembo materno. Che in ognuno dei thriller di questa trilogia (La casa delle voci – 2019; La casa senza ricordi – 2021; La casa delle luci – 2022) è invece un luogo infido, pericoloso, pieno delle voci lugubri di chi l’ha abitata.

E un burattinaio, che possiede l’arte di sottrarre ai bambini i loro segreti. Pietro Gerber, l’addormentatore di bambini. Un personaggio pieno di coni d’ombra, psicologo infantile, che esercita una professione affascinante ma anche molto complessa, che lo pone quotidianamente a confrontarsi con abusi, violenze, devianze mentali provocate, spesso, dagli influssi malsani di chi dovrebbe vegliare su di loro.

Pietro ha proseguito la professione di suo padre, del quale ancora subisce il fascino conturbante e la solida reputazione. Una figura ingombrante, che è rimasta sempre distante da Pietro, cresciuto egli stesso con il dolore di non essere amato dal padre come avrebbe desiderato.

Pietro ha un passato complicato, fatto di solitudine. Un passato che non ha mai superato del tutto e che porta con sé il ricordo di una perdita. Una voce che non ha mai smesso di riecheggiare nella sua testa, un destino crudele che ha portato via il più piccolo dei suoi compagni di giochi, Zeno, scomparso durante un gioco innocente. Innocente, si, ma anche pieno di significati che vanno al di là del gioco. L’ansia di essere scoperto, un tocco che cattura e trasforma, il mutismo di chi è stato braccato. E poi, la parola magica, che, se non detta, obbliga al silenzio perpetuo tutti gli altri.

Carrisi costruisce una trama circolare in cui passato e presente si rincorrono e si intrecciano e dove la parapsicologia, il mistero e i poteri occulti della mente infantile, giocano a confondere e ad atterrire il lettore, vittima predestinata dei virtuosismi dell’autore, incorruttibile manovratore delle nostre paure più intime.

Insieme al bambino perduto, Zeno, c’è Eva, una bambina agorafobica, la cui mente ospita voci che sembrano provenire direttamente dall’infanzia di Pietro Gerber.

Pietro dovrà tornare indietro alla sua infanzia, alla casa delle sue vacanze estive, agli amichetti con cui giocava, al padre, distante e sconosciuto. In cerca della verità su Zeno. E dentro la mente di Eva, alla ricerca delle sembianze di chi sembra volerla manovrare.

Carrisi non è certo sprovvisto delle leve che servono per ipnotizzare il lettore e trarlo a sé. Le atmosfere che sa creare con la sua prosa, la sua scrittura evocativa e subdola, la scelta accuratissima degli argomenti da trattare e dei tasti da premere per scatenare quella morbosa curiosità e quel lieve brivido sulla schiena, sono le sue armi.

Insomma, “La casa delle luci” è per me un si. Dopo gli ultimi due lavori (in ordine di pubblicazione) che non mi avevano convinto a pieno, Carrisi torna in grande spolvero a tatuare sulla nostra pelle il brivido, come solo lui sa fare.

Un meritato accenno alle ambientazioni, belle e coinvolgenti, tagliate a pennello per restituire al lettore le atmosfere claustrofobiche e lugubri che fanno da contorno alla vicenda. Una Firenze notturna, uggiosa, attanagliata dall’umidità, sfumata dalle luci dei lampioni e rimbombante dei passi sui suoi selciati antichi e  austeri. I palazzi rinascimentali, le botteghe buie, i suoni di un passato maestoso ma anche pieno d’ombra e di mistero. E la campagna toscana, maestosamente vittima di una bellezza quasi crudele e di un passato tanto ingombrante quanto indimenticabile. Un passato che torna a galla, così come quello dei protagonisti, che sembrano prede tratte in inganno, che si dimenano inquiete tra le morse di una trappola.

E di morse che stringono il petto e tolgono il fiato questo romanzo è pieno. La morsa della morte, che non si può ingannare, né distrarre. La morsa dell’incomprensibile, che toglie fiato e sonno. La morsa subdola della memoria,  una biscia infida, che si infila dove vuole e che tormenta ogni ferita ancora aperta. E la morsa dei ricordi, dell’irrisolto, del senso di colpa. Le eco di qualcosa che è accaduto ma che non sappiamo ricordare.

E la stretta, inesorabile, del non detto. Arrivederci a presto, Pietro. Perché ci rivedremo, questo è ormai certo.


L’autore

Donato Carrisi è nato nel 1973 a Martina Franca e vive fra Roma e Milano. Dopo aver studiato giurisprudenza, si è specializzato in criminologia e scienza del comportamento. Scrittore, regista e sceneggiatore di serie televisive e per il cinema, è una firma del Corriere della Sera. È l’autore dei romanzi bestseller internazionali (tutti pubblicati da Longanesi) Il suggeritore, Il tribunale delle anime, La donna dei fiori di carta, L’ipotesi del male, Il cacciatore del buio, La ragazza nella nebbia – dal quale ha tratto il film omonimo con cui ha vinto il David di Donatello per il miglior regista esordiente –, Il maestro delle ombre, L’uomo del labirinto – da cui ha tratto il film omonimo –, Il gioco del suggeritore, La casa delle voci, Io sono l’abisso – da cui ha tratto il film omonimo – , La casa senza ricordi ed è autore della favola dark Eva e la sedia vuota. Ha vinto prestigiosi premi in Italia e all’estero come il Prix Polar e il Prix Livre de Poche in Francia e il Premio Bancarella in Italia. I suoi romanzi, tradotti in più di 30 lingue, hanno venduto milioni di copie.


  • Casa Editrice: Longanesi Editore
  • Genere: thriller
  • Pagine:432

ANGELIQUE di Guillaume Musso

Pensavo ingenuamente che soltanto il mio primo delitto mi sarebbe costato davvero. Un delitto che mi aveva proiettata nel mondo degli assassini, i quali, se dovevano uccidere di nuovo, si limitavano ad aggiungere un’altra pagina all’albo d’oro delle loro vittime. E’ chiaro che non è così semplice. Ma non ho scelta. Ho sospinto una prima pedina che ne ha trascinate altre dieci nella sua caduta. Per restare padrona del mio destino, devo uccidere ancora.


Trama

Parigi, Natale 2021.
Dopo un infarto, Mathias Taillefer si sveglia in una stanza d’ospedale. Una ragazza sconosciuta è al suo capezzale. È Louise Collange, una studentessa che suona il violoncello per allietare i pazienti in corsia. Quando Louise scopre che Mathias è un poliziotto, gli chiede di occuparsi di un caso molto particolare che la riguarda da vicino. All’inizio riluttante, Mathias accetta infine di aiutarla, e presto i due si ritroveranno uniti in una spirale che si stringe pericolosamente intorno a loro.
Inizia così un’indagine mozzafiato che parte da Parigi e arriva a Venezia, sulle tracce di un mistero che porta a una vita segreta, a un amore forse sfiorato, a un luogo desiderato ma non ancora raggiunto.
Il nuovo romanzo di Guillaume Musso – intenso, sorprendente, eccitante – è un labirinto di emozioni in cui ogni pagina mette in discussione le nostre stesse certezze.


Recensione

Aprire le pagine di un libro e spalancare un mondo intero. Un mondo di cui lui, Guillaume Musso,  è il burattinaio. L’orchestrante, il mentore, colui che guida con mani sapienti una trama caleidoscopica e piena di sorprese.

Non si smentisce, Musso. Torna con il suo cilindro, dal quale estrae una trama meravigliosamente congegnata, che mescola, come solo lui sa fare, mistero, suspense, intrighi. Una trama circolare, che dipana le sue appendici mano a mano che la lettura procede, alla stessa stregua di una strada che si spezza in tante traiettorie, ognuna con una sua genesi e un suo scopo.

Ormai saprete che Guillaume Musso è uno dei miei scrittori preferiti. Le sue storie mi inghiottono immediatamente in un budello lungo e tortuoso, buio, misterioso, sconosciuto. Come una musica che si infittisce e aumenta in un crescendo di note, i suoi racconti partono con grande slancio e ti soggiogano completamente. Tutto prosegue con un ritmo che cresce, si fa più insistente, e si espande, concedendo ogni tanto delle pause di quiete, che si dissolvono quasi immediatamente per riprendere la sua corsa.

In Angélique sono molti i protagonisti. Ognuno ha un suo piccolo palcoscenico e recita un copione che appare slegato a quello degli altri personaggi. Il nesso c’è, è chiaro. Ma qual è? E perché? Chi, tra i protagonisti, non è ciò che dice di essere?

C’è un ex poliziotto, con un passato oscuro che non riesce a dimenticare e un amore che gli tormenta l’anima. C’è un’adolescente, che pensa di essere stata ingannata. Una etoile della danza, che non sopporta di aver perso la notorietà ed il successo. Un’infermiera ambiziosa e senza scrupoli. Una donna che ha mentito. Un uomo che muore. Una madre tradita che cerca vendetta.

Ognuno ha un suo segreto, talmente forte da condizionare le sue scelte di vita.

E poi, c’è Parigi, in grande spolvero, che rinuncia alle sua grandezza ma si concentra nelle prospettive dei suoi vicoli e delle sue finestre . Come anche Venezia, attanagliata dall’alta marea, lugubre, spaventosa e ancora più ipnotica e attraente, che si spoglia della sua immagine da cartolina.

La prosa di Guillaume Musso è una boccata d’ossigeno. Scivola leggera, facendo a meno di ogni sensazionalismo ma mantenendosi semplice, quasi scarna e cedendo persino alla cronaca giornalistica un po’ del suo scintillio. E un’ulteriore concessione la fa alle immagini: nel libro sono presenti anche delle illustrazioni tra le pagine, stilizzate ma molto evocative.

L’immagine dell’essere umano che esce dalle pagine di Musso è un collage di emozioni non sempre positive. Uomini e donne che spesso mettono davanti a tutto le loro mire e i loro sordidi desideri. Esseri manipolatori che volgono a loro favore le pieghe inaspettate di un destino spesso beffardo. Musso è il maestro delle coincidenze, che utilizza con garbo per infittire i suoi misteri. Ma è anche l’uomo, l’artista, che cede alle lusinghe del cuore e difficilmente ci negherà un finale che, seppur tra qualche incertezza,  ci faccia tirare un sospiro di sollievo.

Anche in questo suo ultimo romanzo Musso si diverte a confondere le carte, lanciando al lettore un messaggio criptico, concedendo al caso, al destino, la mano  più generosa. Perché possa giocarsela nel modo più consono. In fondo siamo tutti appesi al filo della casualità. Un attimo, e il nostro destino è segnato ed irreversibile.

Musso sembra volerci dire che la nostra vita, più che delle nostre scelte, è frutto del caso. Un’interpretazione che dà la misura della forza che questo talentuoso autore attribuisce al destino, che, almeno nelle trame dei suoi romanzi, è determinante.

Insomma, per me è un enorme si. Un romanzo che mi riporta ai primissimi lavori di questo prolifico autore, quando, sconosciuto e alle prime armi, si affacciava sulla scena e la cambiava per sempre.

Musso, in realtà, non ha mai perso il suo tocco nel tempo. Le sue opere mantengono anno dopo anno il loro fulgore, ad indicare una mente ed un cuore che non hanno ancora trovato, se mai esiste, il fondo del pozzo.

Circostanza che mi riempie di gioia. Guillaume, sto già aspettando.


L’autore

Romanzo dopo romanzo, Guillaume Musso ha costruito un legame unico con i suoi lettori. Nato ad Antibes nel 1974, ha iniziato a scrivere dopo gli studi e non si è più fermato, nemmeno quando è diventato professore di Economia. I suoi libri, tradotti in 40 lingue, e più volte adattati per il cinema, lo hanno consacrato come uno dei più importanti scrittori di noir. Presso La nave di Teseo ha pubblicato La ragazza di Brooklyn, Un appartamento a Parigi, La ragazza e la notte, La vita segreta degli scrittori, L’istante presente, E poi…, Salvami, La vita è un romanzo e La sconosciuta della Senna.


  • Casa Editrice: La Nave di Teseo
  • Collana: Oceani
  • Traduzione: Sergio Arecco
  • Genere: noir
  • Pagine: 268

AMORE E FURIA di Samantha Silva

… ma sarei vissuta per reclamare quella gioia che mi spettava di diritto: la fiera, indomita, fosca, ribelle ed eccelsa gioia dell’essere umani.

Trama

30 agosto 1797. La levatrice Parthenia Blenkinsop ha fatto nascere innumerevoli bambini nel corso della sua carriera, ma quando arriva alla porta di Mary Wollstonecraft si stupisce di vedere sulla soglia la sua cliente con un sorriso rilassato, che non tradisce alcun terrore per ciò che l’attende. Le cose, però, non vanno come previsto: il parto presenta delle complicazioni e in breve Mrs Blenkinsop si trova a temere sia per la madre che per la fragile creatura appena venuta alla luce. Nei difficili giorni che seguiranno, per tenere in vita la sua bambina e darle una ragione per lottare, Mary tesserà il racconto della sua breve e avventurosa esistenza, spesa a battersi in nome dell’uguaglianza e della libertà. Figlia di un uomo violento e dispotico nei confronti della moglie e della famiglia, fin da ragazzina Mary cerca un’emancipazione economica che l’allontani il più possibile dal padre. Il riscatto sembra arrivare prima grazie all’amicizia dell’altolocata Jane Arden, e successivamente nel legame con Fanny Blood, con cui apre una scuola. Il suo scopo è quello di insegnare alle ragazze a coltivare sia il corpo che la mente, così da diventare indipendenti e contribuire alla nascita di un mondo in cui le mogli possano difendersi dalla tirannia dei mariti, oppure vivere alle proprie condizioni senza vedere il matrimonio come l’unica speranza per garantirsi un futuro. Assidua frequentatrice dei circoli liberali, nei quali farà la conoscenza del filosofo Richard Price, Mary consolida la sua figura tra i pensatori dell’epoca grazie a un’opera sorprendente e all’avanguardia, Sui diritti delle donne, considerata il primo manifesto femminista della Storia. Attraverso l’alternarsi delle voci di due protagoniste che, seppur in modi diversi, hanno messo la propria vita a servizio delle altre donne, pagina dopo pagina si costruisce il potente racconto di una madre disposta a tutto per consegnare nelle mani di sua figlia un mondo in cui sia possibile provare a vivere come ogni creatura desidera: libera.
Con una prosa radiosa e avvincente Samantha Silva rende omaggio alla folgorante esistenza di Mary Wollstonecraft, pioniera del femminismo e madre della romanziera Mary Shelley. Due donne che hanno cambiato il volto della letteratura.


Recensione

Mary Wollstonecraft è una figura emblematica nella storia dell’emancipazione femminile.

Nata e cresciuta in una famiglia povera e schiacciata dall’alcolismo del padre, Mary sviluppa fin da piccola una visione assai critica della società patriarcale e decisamente contraria all’istituzione del matrimonio, inteso come una gabbia che intrappola la donna, la sottomette all’uomo e la svilisce di ogni potenzialità creativa e intellettiva.

Le sue opere furono ardite, innovative, scandalose e del tutto anacronistiche per la società ed il pensiero del tempo. Eppure costituirono e sono tuttora i capisaldi del femminismo, inteso come pensiero  volto ad affermare l’individualità della donna, essere pensante e anima sensibile, e non più solo un gingillo per sollazzare l’esistenza dell’uomo. 

L’opera di Samantha Silva, lungi dal voler essere una biografia tour court, è la storia romanzata di questa donna, che precorse il tempo e lo spazio per rivendicare il diritto della donna a scegliere, ad educare il proprio pensiero critico, a determinare il suo destino anche senza un uomo al suo fianco.

La narrazione confonde storia e finzione in un gioco sottile, condotto in punta di penna, a sviscerare il pensiero della protagonista, che parla in prima persona della sua vita, delle passioni e della idee eversive che troppo spesso la relegarono a un ruolo di dubbio valore. 

Due i piani narrativi, quello di Mary e quello della sua levatrice, una donna semplice stregata dal potere ipnotico che Mary sprigiona, con il suo modo di vivere, di vedere e di percepire l’ambiente e la società. 

Un racconto a due voci che riesce senza sforzo nell’intento di rappresentare la genesi del pensiero femminista e l’enorme difficoltà di camminare controcorrente in una società gretta e intransigente .

Ciò che percepiamo dalla lettura è la profonda bellezza e l’enorme sconforto che trasuda da Mary, essere tormentato, solo, ma anche solido baluardo di un pensiero embrionale che promette di spaccare la roccia più dura con la perseveranza e la passione.

Il ritratto che esce della societa di fine del XXVIII secolo è un piccolo capolavoro di realismo e di impietosa e cruda aderenza alla verità storica.

Quasi impossibile immaginare come Mary possa aver scardinato le convinzioni dell’epoca senza essere schiacciata. Eppure lo ha fatto. Da sola, contro tutto e tutti. E il testamento struggente che lascia alla figlioletta è qualcosa di così forte da sbalordire e così sentito e coinvolgente da lasciare il segno.


L’autrice


Samantha Silva è una scrittrice e sceneggiatrice che vive in Idaho. Si è laureata alla Johns Hopkins University’s School of Advanced International Studies, e ha studiato per un periodo nella sede di Bologna, in Italia. I suoi racconti e i suoi saggi sono apparsi su One Story e LitHub. Un cortometraggio, The Big Burn, che ha scritto e diretto, è stato presentato in anteprima al Sun Valley Film Festival nel 2018. Attualmente sta lavorando all’adattamento per il teatro del suo romanzo di debutto, Mr. Dickens and His Carol.


  • Casa Editrice: Neri Pozza
  • Traduzione: Daria Restani
  • Genere: biografia
  • Pagine: 320

AvVinti E VINCITORI di Giovanni Endrizzi

“Buona fortuna…” Gli disse solo questo, con un sorriso affaticato e gli occhi lucidi.
Lui se la vide sfuggire, come un palloncino in cielo, e non riuscì a pensare, né a dire nulla. Solo diversi a anni dopo, provò a scrivere una poesia su quel momento.


“Rosso come lo aspettavo
Rosso come lo volevo.
L’ho stretto tra le mani
L’ho avuto tutto mio.
Lo vedono i miei occhi
Le dita lo ricordano.
A un metro da me
È perduto ormai.
Nel cielo va,
io rimango.

Trama

Come è possibile vincere sul destino? Da chi e da cosa dipende che ciascuno di noi possa conquistare la felicità? Questi sono i dilemmi esplorati in questo romanzo. È il racconto di un racconto: fu Patella, un vecchio pescatore di spugne, a rivelare le vicende del protagonista: ci accompagna a scoprire un bambino, nato da una famiglia modesta, con gli occhi sorridenti e innamorato del mondo. Crescendo si ritroverà ad essere «un giovane solo, alla guida della sua vita, senza patente e con un disperato bisogno di raggiungersi». «Noi lo chiameremo Nik» disse Patella. «Sai, Nik nella lingua dei Paesi Baschi, significa “io”. Voglio che tu pensi: “Nik potevo essere io”… E poi questo nome ricorda Nike, la dea greca della vittoria…». Questa vicenda racconta proprio questo: la sostanza di cui sono fatte le “vittorie”, quelle vere; e l’illusione che rigonfia le “vincite”, quelle false. È la storia di come le storie possono cambiare; di come ci sia sempre un finale da conquistare.


Recensione

Un romanzo sulle possibilità che la vita ci offre e che noi dovremmo cogliere a piene mani. Consapevolmente e con la voglia di realizzare qualcosa di vero e di duraturo, per noi stessi, prima che per gli altri. Nella  certezza che realizzare se stessi sia il motivo più forte e più giusto per fare del bene a chi ci sta intorno.

Dentro alle pareti confortevoli e conosciute del racconto di una vita, Giovanni Endrizzi racchiude un insegnamento fondamentale,  che è rivolto essenzialmente ai giovani, coloro che sono più forti nel corpo ma maggiormente vulnerabili nello spirito. Coloro che spesso hanno bisogno di una guida e di una motivazione che li spinga entro gli argini di una vita vera e valida.

Endrizzi ne ha viste molte, dal suo punto di osservazione privilegiato ed è quindi voce autorevole nel campo mutevole e incerto degli anni della formazione.  Con la sua opera pare volerci dire che la determinazione, l’impegno, la volontà e la guida sicura di un amico possono fare miracoli e condurre chi è ancora giovane verso le sponde tranquille di un mare di possibilità per crescere e per realizzarsi.

L’autore si serve di un vecchio pescatore di spugne che racconta la storia di Nik, un ragazzo che la sorte ha dotato di energia, intelligenza, bellezza e passione. Per lo sport, per la musica, per le sfide in genere, che può vincere senza grossi sforzi. Ma come spesso accade negli anni dell’adolescenza, Nik non sa di possedere queste qualità. Non è pienamente consapevole delle sue potenzialità. Si sente insignificante, goffo, sfigato. E finisce per essere demotivato, impaurito, ma la tempo stesso pieno di rabbia e di frustrazione.

Nik cerca un appiglio che lo salvi dalle sue paure ma finisce per aggrapparsi alla spalla sbagliata. E distruggerà, una dopo l’altra, tutte le cose belle che gli sono capitate sul proprio cammino. Saprà perfettamente di rompere un delicato meccanismo che non potrà più ricomporsi, ma non sarà capace di fermarsi. E alla distruzione seguirà la sconfitta, inevitabile.

Poi, come per magia, nella seconda parte del libro, l’autore corre ai ripari e ci mostra in quali modi Nik avrebbe potuto porre rimedio alle sue incertezze. Utilizzando la volontà, la pazienza, la fantasia, l’amore per se stesso e per la vita, in generale.

Ecco che il racconto della storia di Nik diventa una sorte di manuale di istruzione per crescere e per vivere a piena la vita, che è crudele, mutevole e camaleontica, ma anche tenera, accondiscendente e piena di seconde possibilità. Un romanzo crudo e dolente sugli abbagli della gioventù, ma anche denso di vie di fuga, insegnamenti e materna sollecitudine, che insegna a vivere una vita che appare infida ma che in realtà può essere facilmente governata dal buon senso e dalla volontà.

Nik in fondo è uno di noi, che si perde negli anni cruciali e non si lascia aiutare da chi potrebbe farlo. Una sorta di Giovane Holden di casa nostra, con le stesse incertezze e la stessa voglia di controvertire un mondo che gli appare troppo vasto e troppo piena di insidie. Un Holden italiano a cui bisogna insegnare che nella vita non importare collezionare vincite ma realizzare una sola vera vittoria contro ciò che ci allontana dalla felicità. Al quale occorre ricordare che un finale si può sempre cambiare e che ognuno di noi si può meritare un lieto fine.

Endrizzi costruisce questo romanzo avvalendosi di una prosa sicura e senza pecche. Il romanzo ha a mio parere un grosso potenziale come romanzo di formazione, ma ha anche il limite di essere ambientato in un periodo ormai lontano (gli anni ottanta, direi) e che probabilmente appare straniero agli occhi di un adolescente di oggi. Rimane tuttavia una bella lettura, illuminante e dotata di una grande spinta motivazionale.


L’autore

GIOVANNI ENDRIZZI (1962) ha vissuto fino ai 18 anni nell’entroterra agrario del litorale veneto. Dopo il Liceo classico ed alcuni anni alla Facoltà di Scienze Agrarie, da studente lavoratore, si è diplomato Educatore Professionale. Dal 1992 lavora nei Servizi per le Tossicodipendenze delle ASL di Verona e poi di Rovigo, occupandosi di alcolismo e tossicodipendenza, anche in carcere; svolge, inoltre, attività di prevenzione dell’uso di alcol e droghe, e del bullismo, dalle scuole elementari alle superiori. Circa dieci anni fa, arriva a scoprire che in una seconda media un terzo dei ragazzi praticava, non solo occasionalmente, giochi d’azzardo: crea moduli di prevenzione specifici, e farà parte della prima equipe di trattamento attivata dal Ser.T. Eletto Senatore delle Repubblica nel 2013, porta la sua esperienza nell’attività parlamentare ed è primo firmatario di proposte di legge in materia, tra cui l’introduzione del divieto totale di pubblicità. Dal 2019 è membro della Commissione Bicamerale Antimafia dove coordina il IV Comitato sui rapporti tra mafie e gioco d’azzardo, legale ed illegale. In questo libro, l’autore ha scelto il racconto come strumento per divulgare la più preziosa consapevolezza che ha maturato: l’azzardo è un furto di felicità.


  • Casa Editrice: IOD Edizioni
  • Genere: narrativa – romanzo di formazione
  • Pagine: 211