
Ecco Make cross from your lovers e Throw roses in the rain, che un giorno avevi deciso di tautarti su una palla, tutte e due, ed eri anche andato a Bologna dal tatuatore ma poi all’ultimo momento t’eri vergognato e allora nulla, ecco Wast your summer praying in vain, e poi ancora ecco quella meraviglia di strofa benedetta e minima che da sempre ti commuove e ti ricorda che i momenti migliori della vita di noi maschi, quelli che contano davvero e forse ci ricorderemo sul letto di morte, non son mai, mai figli del pensiero ma sempre del corpo, d’un gesto, d’una sensazione fisica, carnale, sei di di nuovo lì, immerso dentro la canzone, a ricevere ancora una volta i regali immensi e umili e verissimi di Springsteen, la comprensione fraterna, uno scintillio di significato, l’ entusiasmo grullo e benedetto e poi l’abbandono, il darsi, la condivisione, eccola e la canti più forte che puoi, Roll down the window and let the wind blow back your hair, e mentre ridi e le lacrime avviano ad affacciarsi agli occhi, la canzone si anima come gonfiata da quello stesso vento ed esplode riempiendosi del suono degli strumenti che fino a quel momento eran stati muti e ora invece si uniscono alla voce e al pianoforte e tramutano quella poesia fervida e sommessa nel frutto migliore della più grande invenzione del Ventesimo secolo che poi è il rock, cazzo, il rock’n’roll, l’incanto per cui ogni nota e ogni parola ti scuoton e ti risuonano dentro per decenni, oggi come ieri, son tue e ti son di conforto perchè il rock’n’roll, oltre che a far festa, è sempre servito anche a consolare chi alle feste non veniva invitato, come te che lonely eri a quindici anni quando sentisti Thunder Road per la prima volta e lonely ti ritrovi ora che la senti a quasi sessanta.
12 novembre 2023
Nostalgia, nostalgia canaglia, perché si stava meglio quando si stava peggio.
Se mi avessero chiesto di inserire, in seconda di copertina, le avvertenze per l’uso di questo romanzo, avrei inserito: attenzione, per i lettori nati sul finire degli anni sessanta, inizio settanta (manco a dirlo, anch’io rientro nella categoria) forte rischio di nostalgia, mista a imbarazzo, mista a disagio, mista a “caxx, sono davvero così vecchi*?”.
Mi è stato immediatamente chiaro che Nesi, in questo suo romanzo che fa degli anni Ottanta un vero e proprio manifesto, si rivolga ad un pubblico giovane, a quelli che metaforicamente sono (potrebbero essere) figli suoi. Per veicolare l’unico vero messaggio, forte e chiaro, del suo lavoro: gli anni Ottanta sono stati irripetibili, meravigliosi, pieni di tutto. Gli anni della speranza che non muore mai, della fiducia nel domani, del tutto si aggiusta, del tutto può (ancora) accadere. Un ritornello già ascoltato (e qui anche Max Pezzali potrebbe dire la sua ….). Perché, ovviamente, chi c’era, già lo sa (giusto?).
Ma veniamo al romanzo. Federico Carpini, alla soglia dei sessant’anni, vive la sua ultima giornata prima che il suo mondo crolli definitivamente. Dopo una vita passata tra gli agi e la sensazione (o dovrei dire la certezza) che la gioventù, la bellezza, la buona sorte, i soldi non sarebbero mai finiti, che le infinite possibilità della vita avrebbero continuato in eterno a concentrarsi miracolosamente sulla sua testa e su quella della sua famiglia, arriva il tracollo. Lentamente, impercettibilmente. Una goccia che con la sua inesorabile costanza, buca la roccia.
Il mondo dorato dei Carpini finisce con l’arrivo dei cinesi a Prato. Prato, una città cresciuta al ritmo ossessivo dei telai. Una periferia zeppa di opifici e davanti, il mondo intero che chiede le pezze di Prato, pagandole a peso d’oro. Un’economia nata dal basso, dall’umiltà dei cenciaioli che con caparbietà si organizzano fino a diventare una potenza. Ricchi arricchiti, tasche piene di soldi e un cuore e una testa da artigiano. Cuore e testa proiettati nel benessere più assurdo, quando anche tutta l’Italia si ergeva a potenza mondiale. Un mondo dorato e incredibile, che ancora ci apparteneva.
Nesi si sposta con maestria tra le due epoche del romanzo. Il passato, brillante di vita, di amori. Pieno delle canzoni di quel tempo, concentrato nella sforzo di far crescere e di far maturare al punto giusto la generazione nata nell’epoca delle grandi contestazioni. Inculcandogli il gusto per il bello e la pretesa di essere felici. Consegnandogli le chiavi per un futuro pieno di luce, in tutto simile all’idea di eternità. E il presente, sconosciuto, straniero. Un luogo impervio in cui non nascono fiori, né erba. Un luogo in cui si alza il fumo delle macerie del passato, acuminate e strazianti. Il presente del fallimento e dell’amarezza. In cui tocca voltarsi indietro per ricordare anche un solo istante di felicità.
E nel rovinoso implodere di questo mondo dorato, cadono amicizie, rapporti familiari, amori, insieme alla certezza di non poter più essere felici. Relazioni che Carpini ricorda con passione e rimpianto, ma anche con tenerezza e indulgenza.
Un romanzo piacevole, che si lascia leggere senza sforzo. Ma che non è mai indolore nel suo incedere. Perché rimorsi, rimpianti, ricordi e amarcord sono disegnati e resi dall’autore con ammorbante partecipazione emotiva. Costruiti dal Nesi. Anzi no, sgorgati con forza dirompente dai suoi ricordi di vita. Perché seppure la trama sia frutto della sua fantasia, è chiaro che tutto ciò che scrive nasce un sentimento rotondo e impietoso che lo investe in pieno, senza lasciargli scampo.
Ed ecco che qui torno alle mie riflessioni iniziali. Al boomer la possibilità di sognare a occhi aperti e tornare indietro nel tempo, al suono languosissimo delle canzoni del tempo (e Nesi ne conosce una tonnellata e non ne tralascia nemmeno una che sia una!) e al luccichio delle luci dei locali e al friccichio delle farfalle nello stomaco e al primo bacio e a quella insormontabile e mai dimenticata sensazione di potere tutto, tutto, tutto…). Al più giovane la possibilità di immaginare cosa siano stati gli anni Ottanta per chi li ha vissuti. Un’immaginazione che si pretende piena, rotonda, quasi una preveggenza per menti illuminate. Il quadro di un’Italia sconosciuta, un’epoca perduta dentro ai meandri della provincia, mai come allora veicoli di meravigliosa operosità e di sagace opportunismo.
Edoardo Nesi riesce nel miracolo di rianimare un passato che sembrava morto e che si scopre invece vivo nella memoria di chi l’ha vissuto. Il suo romanzo descrive la parabola perfetta di una enorme sconfitta. Della rinuncia a stare bene che investì la piccola borghesia italiana, colpevole di averci creduto troppo. La celebrazione dell’epoca della nostra meraviglia, come singoli e come Nazione. Senza calcare troppo la mano sui tasti dell’emotività, ma strappando un sorriso, con l’idioma fresco e becero dei toscani e le bizzarrie e le prodezze dei giovani degli anni Ottanta, che vivevano ogni giorno come fosse l’ultimo e come se non dovessero morire mai.
Eppure, un po’ brucia ammettere “io c’ero”. E quell’io, un po’ stranito e sorpreso, dovrà decidere in fretta se abbandonarsi alla “nostalgia canaglia” e al “si stava meglio quando si stava peggio” o schierarsi nelle file di chi un po’ si imbarazza a pensare a com’era quando suonavano i Dire Straits e gli Aerosmith perché in fondo è acqua passata.
Il romanzo
Come tutti noi, Federico Carpini insegue un sogno impossibile. Il suo è quello di poter vivere ancora una volta una grande giornata prima di vedersi portar via dagli ufficiali giudiziari la poca, ultima roba che gli è rimasta: il segno finale d’un patrimonio conquistato dal padre nella sventata, fulgida età dell’oro degli anni Ottanta e poi svanito. Mentre vive quel giorno come se fosse l’ultimo, portando allo stremo la sua sformata carcassa di ex-bello ormai sessantenne e la sua vecchia Porsche 964, saranno i ricordi di un’epoca e d’una vita incomparabilmente migliore ad accompagnarlo. Sarà il riaffiorare del ricordo di Ginevra, la donna più bella del mondo, a carezzarlo e al tempo stesso tormentarlo. Ma non sarà solo, Fede. Ad abbracciarlo e sostenerlo nel mondo dimentico e insensato nel quale ci troviamo a vivere ci saranno anche Ivo Barrocciai e Vittorio Vezzosi, i suoi amici e i personaggi più indimenticabili di Nesi, che si schiereranno al suo fianco nel giorno più importante e così, sorridendo amaro, e spesso ridendo, si va a celebrare una vita ineguagliabile, un’epoca perduta e una sconfitta colossale.
Edoardo Nesi torna al romanzo con quest’opera accelerata e incalzante, instillata di forza vitale, comica e tragica, che va a concludere un ciclo letterario unico – iniziato nel 1995 e proseguito per otto romanzi – in cui dalle profondità della provincia toscana s’è raccontato lo splendore e la caduta di un’Italia troppo poco raccontata, troppo poco compresa, troppo poco amata.
L’autore
Edoardo Nesi ha pubblicato Fughe da fermo (1995), Ride con gli angeli (1996), Rebecca (1999), Figli delle stelle (2001), L’età dell’oro (2004, Premio Bruno Cavallini; Finalista Premio Strega 2005), Per sempre (2007), Gianna Nannini. Stati d’anima (2009), Storia della mia gente (2010, Premio Strega 2011), Miracolo inevitabile (2011), Le nostre vite senza ieri (2012), L’estate infinita (2015), La mia ombra è tua (2019). È il traduttore italiano del romanzo di David Foster Wallace Infinite Jest. Ha scritto e diretto il film Fughe da fermo (2001).
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