
A volte quei ragazzini, ma anche gli altri, ci chiamano potok. Per loro siamo una, siamo due, siamo tre. Siamo streghe, siamo come Nina, perché ci parliamo sopra come i rami che stanno uno sopra l’altro prima di scintillare, perché ci hanno visto appendere i nostri pezzi di stoffa rosa all’albero morto giù al torrente, perché, giù al torrente, qualche volta accendiamo fuochi per girarci intorno, per farlo usiamo i rami secchi del nostro albero morto, e legni levigati dal Budrin. I nostri fuochi sono circondati da un giro di sassi grigi e neri. Quando il fuoco si accende tutto il bosco diventa uno specchio. I ragazzini pensano che intorno al fuoco giriamo insieme agli Skrat, pensano che i fantasmi del bosco ci abbiano maledette e in cambio si siano presi la voce di Buia e ci abbiano costrette a parlare con le nostre voci una sopra l’altra. Ma noi nel fuoco a volte bruciamo inostri pensieri, nessuno lo sa.
18 settembre 2025
Le parole che mancano e che disegnano un’assenza difficile da colmare.
Quest’opera ambiziosa esplora le dinamiche sociali di una piccola e remota comunità montana in un angolo dimenticato e inaccessibile nelle Alpi Giulie, dove il tempo scorre lento, preda del peso delle tradizioni e delle credenze tramandate di padre in figlio. È un mondo scomodo e chiuso ma anche protetto dall’accelerazione e dalle destabilizzazioni del cambiamento. Persino la lingua non concede spazio al superfluo. Si parla poco per non togliere fiato alla fatica del lavoro nei campi. E di pochi argomenti. Non d’amore né di felicità, concetti che sembrano sconosciuti.
Una comunità in cui tutti si conoscono e che fonda la propria forza nel suo essere un corpo unico, senza dispersioni. E una minaccia, la strada, che arriverà presto a congiungere il paese con il resto del mondo, lasciandolo senza difese. Qui vivono le tre sorelle Kokulčua, unite dalla lingua, l’italiano, che parlano a voce unica, in coro. Colte nell’età del cambiamento, nel momento in cui giunge a infrangere ogni certezza. Prese da una guerra che è gioco e verità insieme.
L’opera sorprende per il suo enorme potere evocativo e per le atmosfere fuori dal tempo, fosche, ripetitive, frutto di tradizioni antiche e di un forte rifiuto del cambiamento. Una chiusura che viene suggellata e mantenuta ferma da un vocabolario scarno, povero di parole, figlio di un dialetto atavico. Una lingua morta che non concepisce le parole dell’amore. La ricerca del loro significato è il filo conduttore di tutta la narrazione, un’indagine che accompagna la crescita delle sorelle, la loro consapevolezza di sé e le scelte che dovranno affrontare: restare, andare via. Resistere o cedere alle istanze del progresso, quella strada che mangia gli alberi e i campi che renderà il paese raggiungibile e nello stesso tempo metterà in discussione tutto.
La scrittura è fitta, ripetitiva, insistente come una cantilena. La prosa è elaborata, i toni sono quelli di una favola oscura, di un mondo incantato in cui ogni cosa sta sul confine tra verità e suggestione. Personaggi quasi caricaturali danno un timbro gotico alla narrazione, con le loro oscurità, i loro segreti, il loro piccolo mondo chiuso, fatto di abitudini, credenze e pregiudizi.
I temi sono ambiziosi e profondi. Il linguaggio come identità e separazione: A Montefosca nessuno parla l’italiano tranne le tre sorelle Kokulčua. È un modo per non farsi capire, una differenza linguistica crea un abisso di incomprensione e isolamento, ma anche una connessione profonda tra le sorelle.
Il desiderio e la trasformazione: le sorelle affrontano il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, segnato dalla scoperta del corpo e del mondo, e dalla lotta con le parole che non riescono a esprimere appieno i loro sentimenti.
Il progresso come speranza e minaccia: la costruzione di una strada che attraverserà il paese rappresenta il progresso, ma anche una minaccia alla comunità e alla sua lingua. La strada distrugge i sentieri, mastica gli alberi, frammenta ogni parola. Per le sorelle, la strada è un pensiero che soffoca la gola, un tradimento della loro identità e del loro mondo.
La comunità come corpo collettivo: il romanzo è narrato dal “noi”, una voce collettiva che riflette la comunità nel suo insieme. Questa narrazione corale conferisce al testo una qualità musicale e rituale, in cui ogni parola è un atto di memoria e di resistenza.
Un lavoro che non passa inosservato, nonostante la lettura non si riveli semplice da portare avanti, per quel suo lirismo quasi criptico, per le incursione della lingua dialettale, per il mistero irrisolto che avvolge i suoi personaggi, ectoplasmi lontani dotati di una loro logica di vita, completamente schiacciati da un destino avaro e prepotente che li vuole fuori dalla ruota del tempo e della vita, immutabili nella loro fatica di vivere. La scrittura ricercata e fuori dagli schemi è il segno tangibile di come e quanto questa autrice sappia fare con la penna, evocando paesaggi onirici e contesti magici e spaventosi. Ma è anche un punto di attenzione, poiché potrebbe scoraggiare alcuni lettori che cercano storie lineari scritte con un fraseggio più ordinario e semplice.
Eppure Zanotti riesce comunque a catturare l’attenzione, immergendo il lettore in un mondo quasi fatato, dove la rassegnazione regna sovrana e l’uomo è solo una pedina, un ingranaggio imperturbabile di una catena che neanche il tempo sa spezzare. Si sente, forte, il bisogno di riconnettersi con la natura, e il desiderio di provare a fare un passo indietro, verso la fonte delle nostre antiche tradizioni, dalle quale c’è molto da poter fare nostro. Si sente anche il richiamo della comunità, come un organismo pluricellulare cui appartenere. Tutti aneliti a cui rivolgere lo sguardo, per una lezione di umiltà e di coesione, sempre utile.
Il romanzo
Montefosca è un paesino celato dalle montagne, una conca al confine con la Jugoslavia in cui nessuno arriva mai. È lì che vivono Alma, Anna e Buia – tre sorelle, una sola voce per raccontarsi. L’italiano lo parlano soltanto loro a Montefosca, gli altri comunicano in una lingua che serve a dire il quotidiano: la terra da coltivare, gli animali da nutrire. Le tre ragazzine invece ascoltano la voce dei monti e il fruscio del bosco, tendono l’orecchio al vento, specchiano i loro occhi nel cielo e nel fieno da falciare, in attesa del primo gelo che le porterà lontano, in collegio. E la più piccola, con coraggio e ribellione, si stacca dal coro per dar voce a ciò che ha davvero dentro, sentimenti difficili da comprendere ed esprimere come “amore”, come “felicità”, come “malinconia”. “Chiamatemi Buia,” dice alle altre, perché “dentro il mio corpo ho il buio delle parole che non capisco”.
Scintille è un romanzo che racconta le molteplici facce del desiderio. E il desiderio prende anche la forma di una strada che in un’estate squarcerà il paese in due per collegarlo finalmente alla valle e al mondo là fuori. La strada è il progresso, la strada mastica gli alberi e spiana i prati, la strada distrugge, frammenta ogni parola. Per fermarla le tre sorelle preparano una guerra, una guerra di rami, una guerra di fuoco. Un gioco di bambini. Con una lingua densa di emozione e intessuta di lirismo, Alice Zanotti entra dentro le passioni che fanno grande un piccolo mondo.
L’autrice
Alice Zanotti è nata a Bologna nel 1985. Lavora al TPE Teatro Astra di Torino. Ha esordito con Tutti gli appuntamenti mancati. Un ritratto immaginario di Amelia Rosselli (Bompiani, 2021).
- Casa Editrice: Nottetempo
- Pagine: 245
- Prezzo: E 16,90
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