INVENTARIO DI QUEL CHE RESTA DOPO CHE LA FORESTA BRUCIA di Michele Ruol



Senza accorgersi, aveva lasciato ovunque un’impronta nerastra, una striscia, un segno. Ecco come funziona il dolore, aveva pensato. Macchia quello che sfiori; rimane anche quando non ci sei. Ora ne vedeva le tracce.


26 agosto 2025

Quel limbo filaccioso in cui si esiste senza essere.

Gli oggetti sono tracce, indizi di una vita. Parlano di noi e per noi la lingua del rimpianto e quella del ricordo. Sono sprazzi di luce dentro al tunnel buio della morte. Spicchi di vita che irrompono come albe improvvise a rappresentare ciò che in vita ci ha tenuto insieme, evitandoci di andare in pezzi, di implodere. Gli oggetti ci tengono a terra, ricordandoci la nostra materia, che è fisica, spesso pesante da portare appresso. Gli oggetti sono specchi, che dicono di noi anche l’indicibile. Materia che non sa tacere. Mezzi inaspettati con i quali Ruol costruisce una trama a mosaico, apparentemente disarmonica, ma che nel suo insieme disegna i gesti e le attitudini di una vita intera.

Sono gli oggetti sopravvissuti alla catastrofe. Oggetti rimasti in solitudine, abbandonati. Insoliti indicatori di un’interruzione, un blacK-out che li ha lasciati a metà, tra la vita e la morte, in quel limbo filaccioso in cui si esiste senza essere. come istantanee sbiadite. Ogni oggetto parla di loro. Padre, Madre. Si incontrano e dal loro incontro nascono Maggiore e Minore. Una famiglia, che come una serpe striscia, celando nell’abitudine le sue devianze, esacerbando sotto la sua falsa luce gli atteggiamenti e gli errori, le attitudini e le consuetudini che a volte sono gioia pura e a volte perdizione, disaccordo, incomprensione.

Poi un giorno tutto si rompe. Maggiore e Minore muoiono in un incidente stradale, mentre un incendio mangia il bosco e le colline, riducendole in un cono fumante di materia nera. La vita si interrompe, tutto si cristallizza in un movimento rigido, oscuro. Il dolore è un macigno che schiaccia tutto. Tutto cambia forma e odore. Tranne gli oggetti, che restano muti e insensibili. Guardano Padre e Madre con indifferenza perché per un oggetto conta solo esistere. Non come o quando. Un dolore annientante e incomprensibile al quale Padre e madre si asservono. Ma la vita è fatta anche e soprattutto da piccole cose che accadono, da gesti apparentemente insignificanti, granelli di sabbia che messi uno innanzi all’altro fanno un’esistenza. Ed è qui che Ruol compie il suo miracolo, rendendo ordinarie quelle vite devastate. Un’antologia della distruzione, che impatta su persone e cose. Persone e cose che resistono alla rovina. Le prime per l’inerzia di esistere, che non da scampo, che non sottrae. Che aggiunge e moltiplica, impilando dolore su dolore e impedendo a chiunque di ricominciare da zero. Le seconde per l’ottusa resistenza opposta al degrado, al deterioramento. Polvere e cenere che sono i ciechi protettori del logorio fisico. Che preservano tutte le eco, tutti i riverberi di una vita che era ordinaria, se non felice.

Gli oggetti che restano scorrono davanti agli occhi di un fantomatico osservatore, che giunge dentro ad una casa ormai disabitata, ammantata di polvere e di eco. E l’inventario di queste cose è il pretesto per raccontare delle persone che vi hanno vissuto. Si procede per immagini, senza un filo logico, né temporale. Si avanza per suggestioni, per ricordi, dentro alla vaghezza di un passato che assume forme fluide, morbide, colme di compassione e di rimpianto.

La scrittura è indulgente, gentile, vischiosa. Ricolma di un potente rispetto per la vita che si è riversata tra quelle parete umide e corrose. Desiderosa di abbellire anche solo per un attimo un’esistenza che è stata ordinaria, noiosa, inutile. Meschina, a tratti, come lo è la vita di chi si è amato e continua ad amarsi, ma desidera al tempo stesso cercare altri orizzonti in cui perdersi, perché in fondo questo è il desiderio di tutti. Perché della felicità ci si può stancare. La felicità la si deve meritare. Il dolore no. Il dolore è pluriforme, mai scontato, sorprendente. Pieno di nicchie nascoste dalle quali trarre nuovi motivi per punirsi, autoinfliggendosi l’espiazione che ci renderà degni di attenzione.

Ruol sembra conoscere la potenza del dolore, il suo trasformismo. E conosce il potere di un singolo oggetto abbandonato in un angolo, Che ammaestra il senso di colpa, titillando il nostro bisogno di empatizzare, di soffrire per qualcosa che è toccato ad altri, che ci dilania ma che non potrà accadere mai.

Il risultato è una lettura che asseconda i nostri bisogni scomodi e che per questo ci conquista immediatamente. Gli oggetti sopravvissuti al fuoco sono lì a rammentarci la nostra fugacità, il sadismo del destino che ci toccherà, spesso tanto crudele da sapere esattamente dove andare a colpire per fare più male. E il dolore è perfetto, un rigagnolo che diventa fiume e che trascina via ogni costrutto, ogni aspettativa, ogni logica. Resta la vita, inevitabilmente. Quella cosa che accade e che scorre, nonostante tutto. Quella che ci guida, anche negli atteggiamenti più inattesi. Quella che ci coglie impreparati e che scuote nel profondo per farci ritrovare la via.

Il romanzo

Nella storia di Madre e di Padre ci sono degli avvenimenti che determinano un prima e un dopo. La nascita di Maggiore e poi quella di Minore, ad esempio, o l’incidente che li coinvolge, ma anche episodi apparentemente marginali dirottano le loro esistenze, come le nostre: delle mani che si sfiorano per caso e poi si trattengono appena più del dovuto, o l’apertura casuale di una chat altrui. In questo esordio luminoso e contundente, Michele Ruol ci conduce nell’intimità dei suoi personaggi attraverso le impronte lasciate sugli oggetti della casa in cui abitavano, riuscendo a farci continuamente ricredere sull’idea che ci siamo fatti su ciascuno di loro – e forse anche su quella che abbiamo di noi stessi.

L’autore

Michele Ruol, di professione medico anestesista, scrive per il teatro e ha pubblicato racconti sulle riviste letterarie «Inutile» ed «Effe – Periodico di Altre Narratività», oltre che in raccolte a più voci, come L’amore ai tempi dell’apocalisse (Galaad), a cura di Paolo Zardi, e Il Veneto del futuro(Marsilio), a cura di Alessandro Zangrando. Il testo Betulla, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano per il podcast Abbecedario per il mondo nuovo, è stato pubblicato nel libro omonimo edito da Il Saggiatore. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è il suo esordio come autore di narrativa.


  • Casa Editrice: Terra Rossa Edizioni
  • Pagine: 198
  • Prezzo: E 16,00

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Pubblicato da laurasalvadori

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