
E’ qui che il passato diventa futuro. Due tartarughe, due innamorati e un uomo con un completo da seersucker. Tutti destinati a questo luogo e a questo tempo. La jeep torna a terra rimbalzando e i fari illuminano Lazarus e Seersucker in mezzo alla strada. La macchina va veloce. Ormai non può più fermarsi.
Il fato imprevedibile di Bible: luoghi e tempi di un autore che narra l’America degli ultimi.
7 luglio 2025
Michael Bible è un fenomeno di recente scoperta, un autore criptico e multidimensionale la cui scrittura spesso è un nucleo pieno di energia pronta a liberarsi. Energia che sa creare altri mondi, che ramifica beneficiando del caos proprio del processo creativo. Destini che l’autore addomestica, plasmandoli, ai quali dà voce e volontà propria, accettandone ogni risultato. Storie matrioska, che si espandono dando vita ad altre storie. Incastri dominati dal caso, tuttavia permeati da infinita grazia, pronti a lasciar scoprire al lettore il filo conduttore, quella chiave che rende tutto coerente e logico.
In Goodbye Hotel questa coerenza risiede nella memoria di due tartarughe, animali dall’aspetto quasi preistorico. Esseri misteriosi, la cui lunga vita dà loro il dono della neutralità. Che fanno da trade union tra le persone, travalicando il tempo e lo spazio delle loro vite. Bible affida a Lazarus e a Little Lazarus la chiave della narrazione. Sono loro i testimoni di ciò che accadrà ai protagonisti. Gli occhi indagatori e innocenti che scrutano i gesti, le decisioni, che ne circostanziano i destini. Destini che sottostanno al fato, vittime di unico gesto che appare dirompente ma che di fatto non lo è. E’ solo vita, che a tratti viene governata da ciò che non ci si aspetta.
La presenza delle tartarughe in verità non è causale, ma frutto di una scelta ben precisa, spiega l’autore durante la presentazione del suo romanzo al Salone del Libro di Torino. Le tartarughe, in quanto animali, possiedono saggezza e quiete. Sanno osservare, in silenzio, senza giudicare. La loro presenza conclama il bisogno della narrazione di essere credibile. E’ un’ancora che affranca la storia alla terra, la rende reale, agevola la conta degli anni che passano e aiuta il lettore a unire le tessere del puzzle, fino a ricavarne uno schema narrativo coerente.
Le storie di Bible si delineano alla fine. Solo nelle ultime pagine ogni tassello va al suo posto e fa uscire allo scoperto ciò che l’autore ha voluto raccontare. Scopriamo così una storia di formazione toccata da una vena tragica, in cui i protagonisti, Eleonor e Francois mettono a nudo le loro fragilità e combattono la loro personale battaglia contro i mostri che attanagliano le loro giovanissime vite. Si incontrano, poi si perdono senza più ritrovarsi. Un incidente è la miccia che fa esplodere le loro esistenze. Un danno che si può riparare solamente con l’oblio.
Quel loro perdersi in verità è un cruccio che schiaccia il loro futuro. Un’incertezza che Francois tenta di scacciare scrivendone, a venticinque anni di distanza. quando ormai è rassegnato all’idea di aver perso per sempre Eleonor. Goodbye Hotel è il nome di un albergo, quello in cui Francois si rifugia per ripensare al passato. L’hotel, per antonomasia, è il luogo della spersonalizzazione. Il luogo non luogo in cui non sei nessuno, che ti vede in incognita, uno tra tanti. Il luogo in cui si ripensa al passato e si pone fine, a volte senza metafore, alla propria vita. Ed è anche un luogo di profonda ispirazione per Bible, che spesso si rifugia nell’anonimato delle sue hall per scrivere le sue storie.
La storia ci riporta a Harmony, un luogo stretto nelle morse della profonda provincia americana. Quasi leggendario, colmo dei suoi simboli più efficaci: capannoni deserti, nuove chiese. Il luogo dove si consuma la tragedia di Eleonor, scomparsa improvvisamente a pochi giorni di distanza dal suo trasferimento al college. Di lei si conoscono i lati oscuri, il rapporto complicato con il proprio corpo, la sua famiglia disgregata, le chiacchiere della gente, che inventa per lei gli epiloghi più svariati (incidente, fuga d’amore, omicidio?). A Francois non rimane che ricordare i loro fugaci incontri, egli stesso attanagliato dell’indifferenza e da un sentimento di disarmante solitudine.
Nulla sembra avere senso. Ma in tutto questo mare di incertezze e sconforto solo le due tartarughe sembrano possedere il dono della resilienza che, al pari della loro corazza, sembra tenerle al riparo dalla paura e dal disorientamento. Sono esseri onniscienti, che niente pare avere il potere di scalfire. Il loro senso del tempo è distorto, e le tiene al riparo dal rimpianto e da ogni rancore. La loro elefantiaca memoria le aiuta a rendere coerente anche la contingenza più complessa. Sono inclini al perdono, passano sopra alle debolezze dell’uomo, che ben conoscono e forse per questo facilmente perdonano. Le due tartarughe sono la cartina al tornasole, la bussola in mare aperto, l’ago della bilancia che riporta tutto alla quiete.
Cosa rimane dunque al lettore di questo romanzo? Sicuramente il conforto di avere una risposta ai dubbi iniziali e al multiverso che pare dispiegarsi davanti al lettore (cosa è accaduto a Eleonor?). Ma anche una panoramica agghiacciante dei disagi dell’età evolutiva, spesso sottovalutati dagli adulti. E un focus fortissimo sulla perfezione del mondo animale, che si arrende agli istinti e lascia correre via lontano il dubbio e l’incertezza tipica dell’uomo.
Ma il regalo più bello che Bible fa al lettore è racchiuso nella suo disegno del tempo, inteso come periodo di vita che si svolge contestualmente al tempo di tutti gli altri abitanti del pianeta. E l’idea della contemporaneità degli avvenimenti della nostra vita, che un attimo sono specchio del passato e l’attimo dopo sono un arco teso verso il futuro. E mentre l’uomo, microscopico essere imperfetto, trascorre il tempo della propria vita, il Tempo della Storia gli scorre accanto, ben più grande e significativo. Un Tempo in cui avvengono le cose più importanti, mentre il tempo della vita appare piccolo e meschino al suo cospetto. Questa idea rimbomba tra la pagine e dona all’opera un respiro talmente ampio da rendere la storia del singolo un’unica tessera di un progetto ben più grande. Come anche l’idea della concatenazione degli eventi che, sebbene accadano per puro caso, portano con sé una carica esplosiva enorme, tale da influenzare il futuro e riscrivere il passato.
Chi legge “Goodbye Hotel” rimarrà ai margini di un disegno ben più ampio, della cui portata non si è coscienti se non alla fine. Solo allora ci si rende conto di come la storia narrata sia in realtà qualcosa di molto semplice, che ha lo scopo di aprire il lettore a tematiche complesse come crescere, far pace con le nostre paure, riconoscersi, affermare se stessi, in un ambiente chiuso, sordo e immutevole come la provincia.
Cosa ha in più, dunque, la penna di Bible? Sicuramente uno stile di scrittura asciutto, spigoloso, che in questo romanzo abbandona i toni lirici utilizzati in “L’ultima cosa bella sulla faccia della terra” per offrire una prosa impregnata di un senso di fine. La prosa onirica, che utilizza sapientemente le immagini, come sprazzi di luce. L’utilizzo sapiente della dimensione temporale, come specchio riflettente e distorsivo della realtà. E l’ambientazione nell’America degli emarginati, nella quale Bible descrive una precisa condizione esistenziale: l’incapacità di stare, la nostalgia di un altrove che forse non esiste. Una condizione mitigata da una profonda compassione verso i perdenti. Coloro che la storia tralascia ma che sono il tessuto più vero e riflettente della società.
Bible non consola ma offre una letteratura che resta impressa sulla pelle. Bible non giudica i suoi personaggi, li osserva con pietà, rendendoli più reali che mai. Bible non spiega, mostra. E poi lascia spazio al vuoto.
Perché leggere questo libro
▪️Se ami i romanzi brevi e intensi
▪️Se cerchi nella lettura un’esperienza visiva, quasi cinematografica.
▪️Se sei abituato a cogliere il senso del non detto tra le pagine.
Perché non leggere questo libro (almeno per adesso)
▪️Se prediligi trame più strutturate, un arco narrativo tradizionale, una prosa densa di dettagli psicologici. Bible suggerisce, evoca, lascia irrisolto. E questo può non piacere a tutti.
Il romanzo
C’è un posto, a New York, che chiamano Goodbye Hotel, perché è l’ultimo rifugio di chi, per ragioni diverse, si è allontanato dal mondo e nel mondo non vuole (o non può) più tornare. Lì, mentre una nevicata «ipnotica» cade sulla città, François siede davanti al fuoco, stappa una bottiglia di vino da quattro soldi e inizia a scrivere la sua storia. Vuole metterci a parte di un avvenimento capitato venticinque anni prima, ma soprattutto raccontarci quello che sarebbe potuto succedere e – forse – è successo davvero. Ha a disposizione solo «un pezzetto di verità», che certo non basta a colmare tutti i vuoti. La sua voce, carica di un’antica sofferenza, ci trasporta ancora una volta a Harmony, un’anonima cittadina del Sud degli Stati Uniti, dove ogni sera «si confonde con un milione di altre sere» e i giovani sono «destinati a perdersi» ma non smettono di desiderare «l’impossibile». Dove «non c’è differenza fra chi è amato e chi non lo è», perché «tutti si sentono soli, con addosso la maledizione di un vuoto americano che gli cresce dentro». Eppure, come sanno i lettori di L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, Harmony è anche un crocevia dove il destino dà appuntamento alle sue vittime ignare: in questo caso due ragazzi innamorati e un misterioso uomo con un completo di seersucker, che in una notte di fine estate si incontrano sotto lo sguardo benevolo e saggio di Lazarus, una tartaruga dai poteri chiaroveggenti, indimenticabile protagonista del romanzo. Perché nell’universo di Michael Bible il passato può facilmente diventare futuro e viceversa; come in un sogno di David Lynch, a una dimensione della realtà ne corrispondono infinite altre, parallele e comunicanti. Non ci resta quindi che abbandonarci al ruolo di testimoni involontari e accettare che la verità a volte risulti inaccessibile, protetta da un guscio di bugie e inganni simile a quello di una testuggine centenaria.
L’autore
Michael Bible è nato nel North Caroline e vive a New York. Di lui Adelphi ha pubblicato “L’ultima cosa bella sulla faccia della terra”.
- Casa Edtrice: Adelphi
- Pagine: 156
- Prezzo: E 18,00
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