BUGIE SU MIA MADRE di Daniela Dröscher



In un certo senso è come se mio padre, per tutta la vita, avesse confuso mia madre con una casa. Con la differenza che in una casa si possono fare degli interventi di valorizzazione senza chiedere il permesso, sul corpo di un’altra persona no. A causa di una moglie sovrappeso mio padre si ritrovò ad avere una macchia brutta e ostinata che gli rovinava una facciata bianchissima – ecco che ritorna l’immagine della casa. Il corpo di mia madre rappresentava la visibilità in un mondo che puntava tutto sull’invisibilità. Non dare nell’occhio era uno dei principi più profondamente radicati nell’ambiente di provenienza di mio padre. Il suo corpo, invece, è quello di un bambino del dopoguerra. E il mondo contadino in cui è cresciuto è un mondo ostile e difficile.


17 marzo 2025

Mamma mangia tutto. Un corpo ingombrante, inaccettabile, che aspira all’invisibilità, nella famiglia nucleare degli anni ottanta.

La madre, il confine del suo corpo, il potere che emana, è il primo concetto che interiorizza il bambino. L’odore, la capacità innata di consolare, accogliere, curare. La forma morbida di un seno, l’incombere fisico che appare capace di ogni vittoria contro qualsiasi nemico. Un corpo che la società vuole invisibile, instancabile, dedito alla cura e ottenebrato dalla dipendenza economica, emotiva e suggestionale dal maschio.

Ela, ormai adulta, racconta la sua infanzia, analizzandola alla luce delle dinamiche sociali del nostro tempo. Un occhio acuto, impietoso, teso a rielaborare il proprio passato, a contestualizzarlo, inserendolo nel tempo e nello spazio giusto, con il suo bagaglio passato a influenzarne la forma e le direzioni.

Sua madre è il baricentro del racconto. Una donna volitiva ma segnata dall’insicurezza, imprigionata in un fisico possente, che incarna in sé l’idea, imperante, della pigrizia, dell’incuria. Un corpo che la madre porta con leggerezza, grazie anche alle eco della sua famiglia, che proviene dall’esperienza dell’immigrazione e dell’indigenza, per la quale grassezza è indice di prosperità e di benessere. Un corpo che il marito non accetta, che ritiene vergognoso, impresentabile, il segno tangibile dell’insuccesso. Un corpo che trattiene in sé l’idea di mediocrità, quella stessa insulsaggine che impedisce al marito di emergere, di assumere e mantenere una posizione sociale nella scala, sempre più ripida, che porta al successo.

La piccola Ela è costretta a fare l’ago della bilancia, schiacciata tra queste avverse dinamiche familiari. Il padre è bilioso, irascibile. Tanto insicuro e bisognoso di approvazione, quanto è succube delle sue origini contadine. Un uomo che pretende di avere il controllo su tutto e che obbliga la moglie a continue vessazioni, per indurla a dimagrire. La pretesa che la moglie non lavori, che dipenda da lui, che non si perda in inutili passatempi, sono tutte emanazioni dell’idea patriarcale che la donna sia asservita alla cura degli altri, succube della vita domestica, schiava legalizzata al servizio della famiglia.

Ela passa da un sentimento di dolorosa passione per la madre ad un senso di vergogna per il suo corpo fuori dagli schemi, che non passa inosservato e attira malignità e sberleffi. Segue con trasporto le sue vicende, a partire dal sentimento di estraneità verso la Germania, lei che proviene dalla Svevia, terra di confine, sottratta dalla Polonia e considerata terra straniera a tutti gli effetti. Un retroscena che terrà la madre preda di stereotipi razzisti, che la trasformerà in una straniera spesso mal vista e sicuramente mai accettata dalla famiglia di suo marito. La madre non ha un suo spazio: vive nella casa dei suoceri, in un paese diverso e nulla le appartiene realmente. Di suo ha solo il corpo, che viene continuamente insultato e messo sotto accusa.

La madre ha un lavoro ma dovrà rinunciare a qualsiasi velleità di carriera con la gravidanza della seconda figlia, quando ormai il suo matrimonio è già naufragato. Le figlie cresceranno ma l’anziana madre si ammalerà e avrà bisogno delle sue cure. E’ lei il punto fermo della famiglia, e ne diverrà anche il perno economico, quando erediterà una cospicua somma dal padre. Denari che il marito pretenderà di gestire, imbarcandosi in imprese azzardate e fuori luogo. E mentre lei riverserà nel cibo le sue frustrazioni, lui si farà sempre più ostile e distante, rabbioso e incoerente. L’odio verso il corpo ormai dilatato della moglie sfocerà in una vessazione inaccettabile, che porterà disordine e rottura.

Una storia con un epilogo già segnato, che tuttavia si addolcisce nel confronto franco che Ela, ormai adulta, ha con sua madre. Un tentativo di comprendere la madre intimamente, di dare un nome al suo malessere, di conoscere più a fondo il suo passato. Con la volontà di vivisezionare la famiglia patriarcale, con i suoi dettami, le sue regole, i suoi fondamenti.

La pretesa di avere il potere sul corpo della donna, di comandare la sua forma, lo spazio che può legittimamente occupare. Decretare la sua visibilità, farlo uscire dalla nebbia, assurgerlo a vessillo e a simbolo del potere di un uomo. Misurarlo, pesarlo, giudicarlo. Costringere la donna a costruire un castello di menzogne per poter sopravvivere. O a chiudersi nel silenzio, esso stesso una forma di menzogna, dettata dall’incomprensione. La banalizzazione della maternità, vista come unica fonte di realizzazione, un idillio senza macchia da gestire in autonomia.

Le bugie che stringono la madre, il suo vissuto e la memoria collettiva su di lei, sono raccolte dalla figlia e analizzate a posteriori, con l’intento di ammorbidire la sua reputazione e i suoi ricordi. Con lei la figlia rivive quei giorni, subendone ancora l’influenza, con la consapevolezza che i tempi oggi non avrebbero permesso tanta acredine e tanta violenza. E anche la madre, ormai anziana, si riconcilia con il proprio passato, avendone compreso le dinamiche e avendo interiorizzato le proprie debolezze. Una vita segnata dagli eccessi, dai “troppo” o dai “troppo poco”.

Il disturbo alimentare non ha un nome, in questa storia, ma è evidente in ogni passaggio nonostante passi solo per un intollerabile capriccio. Come l’annullamento della donna nella famiglia, una piovra che l’afferra e la tiene prigioniera di un eden fittizio e manipolatorio.

Il romanzo è anche un’analisi della società tedesca degli anni 70 e 80 dello scorso secolo. Anni in cui le eco del regime nazionalsocialista si fanno ancora sentire. L’ideale di perfezione e di forza ancora permea la società e la competizione è vista come lo specchio dell’ambizione. Si normalizza la violenza, compreso l’isolamento sociale della donna, che la madre subirà per tutta la sua vita, nella società in quanto esule e in famiglia a causa del suo corpo non conforme.

Ela è il frutto di questa lotta intestina. Un bambino che cresce troppo in fretta, nell’inquietudine di dover tenere in equilibrio una situazione irrimediabilmente distorta, che porta su di sé il peso della felicità e della realizzazione familiare. Un bambino che è il parafulmine delle forze a cui la donna è sottoposta nel patriarcato.

In un crescendo di presente e di passato, nell’intento di ricostruire detto e non detto, bugie e menzogne di quel passato fatto di dominio e di impotenza, l’autrice conduce un’analisi spietata della società di allora e di adesso, intessuta di una quotidianità a tratti esilarante, regalandoci un racconto che sa irritare, sconvolgere e scandalizzare come sanno fare solo le cose vissute davvero.


Il romanzo

Germania, anni Ottanta. Ela ha sei anni e «come una piccola investigatrice privata» osserva la vita domestica trasformarsi in un campo di battaglia: la madre è troppo grassa e deve dimagrire a tutti i costi. Così ha decretato il capofamiglia, ossessionato dal corpo della moglie, che ritiene responsabile di ogni suo fallimento, dalla mancata promozione alle ambizioni sociali frustrate. Giorno dopo giorno, attorno a quel corpo si stringe un assedio fatto di ammonimenti, vergogna e controllo. Ormai adulta, l’autrice ritorna su quegli anni con uno sguardo capace di districare finalmente verità e menzogne, elementi essenziali di quel dominio quotidiano a cui da bambina assisteva impotente. Alternando il passato di vivaci capitoli narrativi al presente di fulminanti analisi, Daniela Dröscher ricostruisce le tensioni di un’infanzia segnata dai non detti, svelando con precisione i meccanismi invisibili attraverso cui il patriarcato modella il corpo e la vita delle donne.


L’autrice

Daniela Dröscher (1977) è una scrittrice tedesca. Per i suoi romanzi, saggi e opere teatrali è stata insignita di numerosi riconoscimenti letterari, tra cui il premio Anna Seghers e il premio Robert Gernhardt.
Bugie su mia madre, il suo ultimo libro, è stato tra i finalisti del Deutscher Buchpreis 2022.


  • Casa Editrice: L’Orma
  • Traduzione: Flavia Pantanella
  • Pagine: 384
  • Prezzo: E 24,00

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Pubblicato da laurasalvadori

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