QUELLO CHE SO DI TE di Nadia Terranova



Travestita da incartamento, da referto medico, da cartella clinica, la verità di Venera non è morta con lei. Allora desidero forte, perché non mi è rimasto altro. Vorrei che il carrozzone di quel circo non si fosse fermato a Messina, proprio vicino casa tua. Vorrei che il granatiere non fosse stato costretto a cercare una soluzione per il tuo dolore. Vorrei cancellare il sangue sugli spalti dagli occhi degli altri, il feto morto dai tuoi incubi. Vorrei tornare a quel giorno, se almeno sapessi con precisione qual è, creare una cartina di eventi così grandi da oscurare la tua caduta, come un’eclissi. Cancellare le cadute di tutte le donne che hai generato, passate e future, reali e immaginarie. E in quell’assenza di fatti, in quella sospensione, avvicinarmi a viso scoperto: Venera io ti credo, è andata così come dici, però ugualmente la colpa non è tua.


Sono madre e non impazzirò. Il filo sottile che riporta alle origini e al desiderio di salvezza.

28 gennaio 2025

Inutile provare a divagare. Torniamo sempre lì, a quella paura di non convincere. Al timore malcelato di disattendere. Di deviare, creando un percorso alternativo, mai tracciato prima e solo per questo guardato con sospetto, ad indagare perché si è scelto, per giungere dove, e con chi e a quale recondito scopo.

E’ accaduto a Venera, un nome che immediatamente incanta, perché rimanda al fascino della dea e alla sua natura profana. Non a caso è lei che dopo un aborto vacilla, presa in pugno da un senso di colpa che l’annienta. Si crede un pericolo, lei che invece andava solo avvolta in un abbraccio e condotta tra lenzuola morbide, nel caldo e sacro alveo del letto matrimoniale. Non accade, forse, alle donne timorate. A quelle che stanno saldamente avvinte alle regole e alle credenze. Invece Venera, che per una vita intera ha atteso il suo uomo, e che lo ha preso infine solo per uno scherzo del destino, contro il volere della famiglia, è schiacciata dalla colpa per aver ucciso, seppur per un incidente, la sua bimba. Neanche il tempo di asciugare il pianto che Venera finisce nelle stanze piene di eco del Mandalari, la Casa di Salute, che al marito fa spavento chiamare manicomio. Uno spavento che tuttavia non gli impedisce di accompagnata fin la, in un giorno di marzo.

E’ accaduto a troppe donne. Perché la maternità è la culla di ogni dubbio. Il cratere che inghiotte ogni certezza. E Nadia Terranova lo sa, nell’istante in cui si china a scrutare la sua bimba appena nata.

La maternità è il dilemma e la soluzione. Un luogo in cui interrogarsi, ricercare appigli, riconoscersi e rinnovarsi. Per Nadia Terranova è la spinta a ricercare le eco della sua bisnonna Venera. L’input è quello di scongiurare il diffondersi della follia come una tara ereditaria, il desiderio di proteggere la nuova vita che è nata, ma è anche e soprattutto il bisogno di gettare un ponte che aiuti la memoria a riabilitare Venera. E in questa ricerca l’autrice tratteggia la forza del controsenso e delle contraddizioni che abitano una madre, che vuole esistere e in egual misura scomparire, ricercando la nuova ombra che si crea dalla sua persona, le nuove propaggini e i nuovi odori.

In Quello che so di te Nadia Terranova indaga il passato con una dolcezza nuova. Gli abbagli, le onde sonore e visive che il ricordo della bisnonna restituisce sono appannaggio della Mitologia Familiare, una sorta di tam tam che salta di generazione in generazione. Un telefono senza fili che assolve o condanna, seguendo la necessità insopprimibile di giudicare. E’ la voce intergenerazionale che racconta di una donna piegata e degli uomini che l’hanno circondata. Delle generazioni successive, che hanno cercato di salvarsi attraverso il desiderio di dimenticare. Una, due versioni della stessa storia. Fino all’oblio.

E allora ecco che occorre tornare indietro, sui passi di Venera. Dell’uomo che lei amò, dei figli che generò. Varcare le mura pallide e mangiate dall’edera del Mandalari, gli intonachi sul pavimento, i rimbombi di corridoi in penombra, le cui pareti sembrano rimandare le voci delle internate.

Tornare e aggiungere tasselli ad una storia che si fa nebbia, pulviscolo danzante. Mentre una bambina e sua madre crescono. Membra salde a circondare un cuore baldanzoso e tremulo.

Quello che so di te è un romanzo di memoria e di forza. Di condanna e di assoluzione. Di perdono per chi non sa assolvere, per ogni donna, per Venera e per chi la condannò. Una prosa che è ovunque un ricamo leggiadro, piena di amore e di grazia, accogliente, indulgente, una carezza che lambisce la guancia.

Una coperta che ti scalda nella notte invernale, mentre fuori infuria la tempesta. Ma qui dentro no. Qui c’è riposo, un letto morbido. Il sonno che ristora dopo una corsa a perdifiato. Shhh, shhh. Sei a casa. Sei al sicuro. Nessuno ti chiederà di nasconderti, di essere un’altra, mai.


Il romanzo

C’è una donna in questa storia che, di fronte alla figlia appena nata, ha una sola certezza: da ora non potrà mai più permettersi di impazzire. La follia nella sua famiglia non è solo un pensiero astratto ma ha un nome, e quel nome è Venera. Una bisnonna che ha sempre avuto un posto speciale nei suoi sogni. Ma chi era Venera? Qual è stato l’evento che l’ha portata a varcare la soglia del Mandalari, il manicomio di Messina, in un giorno di marzo? Per scoprirlo, è fondamentale interrogare la Mitologia Familiare, che però forse mente, forse sbaglia, trasfigura ogni episodio con dettagli inattendibili. Questa non è solo una storia di donne, ma anche di uomini. Di padri che hanno spalle larghe e braccia lunghe, buone per lanciare granate in guerra. Di padri che possono spaventarsi, fuggire, perdersi. Per raccontare le donne e gli uomini di questa famiglia, le loro cadute e il loro ostinato coraggio, non resta altro che accettare la sfida: non basta sognare il passato, bisogna andarselo a prendere. Ritornare a Messina, ritornare fra le mura dove Venera è stata internata e cercare un varco fra le memorie (o le bugie?) tramandate, fra l’invenzione e la realtà, fra i responsi della psichiatria e quelli dei racconti familiari.


L’autrice

Nadia Terranova è nata a Messina e vive a Roma. Ha pubblicato i romanzi Gli anni al contrario (2015, vincitore di numerosi premi tra cui il Bagutta Opera Prima, il Brancati e l’americano The Bridge Book Award), Addio fantasmi (2018, finalista al Premio Strega, Premio Alassio Centolibri) e Trema la notte (2022, Premio Elio Vittorini, Premio Internazionale del mare Piero Ottone). Collabora con le pagine culturali della Repubblica e della Stampa ed è la curatrice della rivista letteraria edita da Linkiesta. È tradotta in tutto il mondo.


  • Casa Editrice: Guanda
  • Pagine: 261
  • Prezzo: E 19

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Pubblicato da laurasalvadori

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