
Nelle scuole di medicina ci insegnavano, e l’esperienza lo confermava ampiamente, che le femmine sono più inclini dei maschi alla follia, giacché la sede dell’isteria è l’utero. Le donne sono più portate a piangere, a qualsiasi età; come notò Aristotele, le lacrime delle donne sono “di consistenza più morbida e meno sostanziosa” delle lacrime degli uomini. Le emozioni nella donna emergono da specifici organi femminili, mentre le emozioni nel maschio sgorgano dal cervello. Poiché si riteneva fermamente che il comportamento immorale e criminale fosse conseguenza della degenerazione d’alcune razze e discendenze famigliari, la sterilizzazione delle donne che ne erano afflitte, per obbligo statale, avrebbe rappresentato una parte indispensabile della carriera chirurgica di alcuni medici, cui era affidata la responsabilità della salute pubblica.
Quando la follia non è che il pretesto per imbracciare un bisturi. L’epopea sanguinosa delle serve a contratto nell’America negli anni che precedettero la Guerra di Secessione.
8 dicembre 2024
Sulla versatilità di Joyce Carol Oates non si discute. In 60 anni di scrittura, questa autrice illuminata e inesauribile ha, credo, abbracciato ogni genere, ogni argomento, ogni tema possibile, con la sua penna fluida e profondissima.
In questo romanzo, che La nave di Teseo pubblica con una copertina minimalista e inquietante, (tanto da evocare nell’immaginario del lettore una discesa dell’autrice nel genere horror, l’unico, forse, mai calcato dall’autrice) Oates descrive l’epopea di un medico vissuto in New Jersey nel XIX secolo. Un personaggio volutamente grottesco e improbabile, debole rappresentante di quella schiera di precursori della medicina che si affidarono al metodo sperimentale e alla pratica della dissezione dei cadaveri per progredire nella chirurgia. Ultimo di una schiera di figli, inviso al padre poiché non brillante negli studi, cresciuto all’ombra di un terribile senso di inferiorità nei confronti dei fratelli e di chiunque altro, in verità. Poco più di un ciarlatano, con una laurea in medicina presa studiando frettolosamente sui libri, senza fare pratica. Goffo, insignificante, con una sindrome dell’impostore che lo minava nel profondo e una paura atavica del corpo femminile, ciò che paradossalmente invece diverrà il suo campo di sperimentazione e di cura. Insicuro, quasi balbettante, con un vero terrore del sangue, paura viscerale che vincerà solo attraverso l’abitudine, dopo aver dato foggio di una viltà paralizzante, seconda solo alla sua vanagloria.
Oates non fa sconti nel disegnare la personalità aberrante del giovane Silas Aloysius Weir, dottore in medicina. Un medico di campagna con la anacronistica volontà di consacrare il proprio nome tra i grandi della medicina. Per riabilitarsi agli occhi del padre, desiderio che condizionerà tutta la sua carriera.
A parlare di lui è il figlio primogenito, Jonathan, venuto in possesso, dopo la morte del padre, del suo diario, i cui estratti occupano la maggior parte del romanzo. Un interlocutore interessato e coinvolto che, in ogni pagina del romanzo, palesa la sua indecisa opinione sul padre, in perenne oscillazione tra lo sdegno e l’indulgenza. Un tentennamento che possiamo comprendere, visto che Silas verrà, dopo la sua morte, ingiustamente osannato come grande pioniere della medicina, in quello che altro non sarà che una deliberata volontà di riabilitarlo, mettendo a tacere le orribili dicerie sul suo conto.
Dicerie che emergono dal sottosuolo, dalla maldicenza, ma che indiscutibilmente si sovrappongono a molte verità scomode: Silas Weir, durante la sua carriera, approfittò dello stato di indigenza e di sottomissione fisica e psicologia delle serve a contratto nel suo ospedale. Creature invisibili, insignificanti, del tutto sovrapponibili a cavie umane. Persone “nulle”, come le chiama lo stesso Weir, che possono morire tra atroci sofferenze, nella sopraffazione più abbietta, in nome del progresso medico.
Oates è magistrale nel disegnare la situazione di queste donne. Sono una schiera silente e invisibile, in massima parte immigrate irlandesi. che soggiacciono ai peggiori pregiudizi. Si ritengono lascive, sporche, approfittatrici, pazze. Esseri che non sanno sottrarsi alle attenzioni malevole dei loro padroni e che rimangono incinte ancora bambine. Colpevoli di non saper evitare che un uomo le tocchi e fornichi con loro. Isteriche, folli, malvagie, portatrici di malattie e affette dalla fistula, la lacerazione della vescica che spesso occorre nei parti e che trasforma le donne in esseri impuri, purulenti e incontinenti.
La fistula, in verità, sarà la croce e la delizia di Weir, che si lancerà nello studio della sua riparazione. Brigit, una giovanissima serva albina e muta, ne è affetta. E Weir subisce, fin da subito, il fascino di questa giovane, che prenderà sotto la sua ala protettiva, facendone la sua aiutante. Una fascinazione che segnerà anche la sua rovinosa caduta.
L’epopea di Weir tra le mura dell’Istituto per le donne malate di mente è degna di un pulp. La cure di Weir per la follia femminile sono raccapriccianti e intrise di misoginia e di pregiudizio. Questi temi sono trattati con così tanti particolari che la narrazione scivola impercettibilmente nel grottesco. Il ridicolo si avviluppa alla figura e alle convinzioni mediche di Weir, trasformandolo in un personaggio assurdo, talmente meschino e gretto da essere risibile e paradossale. La sua bizzarria, la sua stupidità e ignoranza è tale che perfino le serve che ha preso come aiutanti ne sanno più di lui, semplicemente facendo uso del buon senso, dote che Weir non pare possedere, accecato com’è dal desiderio della sua consacrazione. A questo si aggiunga che la narrazione in prima persona amplifica le eco delle sue azioni, rendendole ancor più bislacche.
Quello che è a tutti gli effetti un romanzo-documento sulla Storia della medicina, finisce per diventare uno specchio impietoso della società del tempo, in cui si pratica ancora la schiavitù e non si fa mistero di considerare i poveri, i diversi, gli stranieri, esseri inferiori. Persone da disprezzare. Un schiera di subumani da sfruttare in ogni modo possibile, ignorando la loro stessa natura di essere pensanti, capaci di provare emozioni e dolore.
Oates è regina nel tratteggiare la figura di Weir rendendolo l’immagine vanagloriosa e meschina della classe media del tempo, dotata di quella miopia e di quella vanità insana che tutti vedono ma nessuno vuole additare. Weir incarna l’uomo medio di tutti i tempi, che utilizza ogni tipo di condiscendenza per giustificare il suo operato. Azioni che sembrano mosse da un bene superiore ma in realtà sono solo frutto di un insano egoismo. L’equilibrio delicatissimo e incerto tra giusto e grottesco, tra serio e faceto, tra finzione e verità, il risibile dentro allo scopo nobile, nascosto tra le sue pieghe più remote, è il vero capolavoro di questo romanzo, che restituisce al lettore una pagina di storia macabra e indegna senza il balsamo dell’indulgenza.
Il tutto senza saper evitare un certo grado di coinvolgimento emotivo e una vena di romanticismo, seppure soffusa e impercettibile. Quell’amore, che chiamiamo ossessione o vertigine, non può mai uscire di scena. L’autrice, sensibilissima interprete delle pulsioni umane, lo lascia fluire, senza governarlo. E l’amore esce, scorre, rende tutto più plausibile, più vero e più tragico. Anche nel dolore più atroce, anche nello scempio di sangue innocente. Questo è il capolavoro che costruisce Joyce Carol Oates e che permea molto dei suoi romanzi, come una magia. Ed è proprio per questo che Joyce Carol Oates è unica e inimitabile.
Il romanzo
Nel 1836, dopo essere stato accusato di un terribile esperimento dalle tragiche conseguenze, il dottor Silas Aloysius Weir è costretto a cercare lavoro presso l’Istituto del New Jersey per donne malate di mente. Nel giro di poco tempo il dottor Weir trasforma l’Istituto nel suo regno e vi agisce indisturbato. Qui, infatti, gli è permesso proseguire a sperimentare le sue macabre pratiche, senza alcun controllo. Per decenni ha la possibilità di usare donne povere e in difficoltà, trascurate dallo Stato e dalla sanità, come cavie umane, sottoponendole a esperimenti e privazioni grotteschi. Nonostante questo viene celebrato come un pioniere della medicina chirurgica, addirittura come il “padre della Gino-Psichiatria”. L’ambizione e la follia di Weir sono alimentate anche dalla sua ossessione per una giovane serva irlandese, Brigit Kinealy, che diventa non solo il suo principale soggetto sperimentale, ma anche l’unica in grado di contrastare il suo dominio di follia e terrore. Narrato dal figlio maggiore del dottor Weir, che ha ripudiato la brutale eredità del padre, “Macellaio” è una miscela unica di finzione e realtà che racconta la vicenda del suo protagonista mentre passa dall’anonimato professionale alla fama nazionale, fino alla sua caduta.
Joyce Carol Oates trascina il lettore in un viaggio da incubo attraverso le regioni più oscure della psiche umana riuscendo però ad affascinarlo con un romanticismo inaspettato, confermandosi, ancora una volta, una delle voci più importanti della letteratura contemporanea internazionale.
L’autrice
Joyce Carol Oates ha ricevuto numerosi importanti riconoscimenti, tra i quali ricordiamo: la National Medal of Humanities, il National Book Critics Circle Ivan Sandrof Lifetime Achievement Award, il National Book Award e il PEN/Malamud Award for Excellence in Short Fiction. Autrice enormemente prolifica, ha scritto alcune delle opere più significative del nostro tempo. Per La nave di Teseo ha pubblicato Ho fatto la spia (2020), Pericoli di un viaggio nel tempo (2021), La notte, il sonno, la morte, e le stelle (2021), L’altra te (2022) e le nuove edizioni di Una brava ragazza (2020), La figlia dello straniero (2020), Blonde (2021) e Sorella, mio unico amore (2022). Ha insegnato alla Princeton University ed è membro dell’American Academy of Arts and Letters dal 1978.
- Casa Editrice: L Nave di Teseo
- Traduzione: Chiara Spaziani
- Pagine: 479
- Prezzo: E 24,00
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