
Vorrebbe tanto il suo lenzuolo bianco tutto intero. Sarebbe semplice avvolgersi nella sua trama, sperare di trovarlo cresciuto proprio come lei, abbastanza da coprirla dalla testa ai piedi. Tenere fuori solo l’ovale del viso e guardare da sotto in su la facciata di una casa molto più grande di quella della Valle Scura. Contemplarla a lungo chiedendosi se valga la pena entrare oppure no.
Un futuro di scarsità e il mito della fagocitazione dell’infanzia.
19 febbraio 2024
Che ci si trovi in un punto imprecisato in avanti sulla linea del tempo si rileva dalla temperatura esterna, mortifera e invivibile, e da una involuzione esponenziale dei rapporti umani, che cessano di esistere come interazione e diventano appannaggio di una sopravvivenza labile e insperata.
Il mondo come lo conosciamo non esiste più. E la colpa è del clima, che ormai prevede temperature bollenti, assenza di piogge e un ambiente naturale compromesso, in cui gli animali hanno ritrovato una dimensione selvatica e indomita.
Le persone migrano. Abbandonano le città, ormai ridotte a serbatoi incontrollati di risorse. Lasciano le case comode per inerpicarsi sui monti o per popolare nuovamente valli strette e profonde, dove il sole stenta a penetrare. Sopravvivere costringe l’uomo ad dimenticare remore e convenzioni sociali. Ogni cosa ha un prezzo e ogni scopo viene raggiunto costi quel che costi.
Ginevra Lamberti dona al suo Veneto una connotazione crudele e straniera, rappresentando un coacervo di foreste, di acquitrini, di fango secco. La sua gente ridotta ad un insieme scomposto di bocche affamate, di menti offuscate da atavici pregiudizi. Un’esistenza che stenta a preservarsi, che si appoggia al caso e alla forza oscura dei potenti, disposti a tutto pur di conservare i propri privilegi. Una terra legata al passato, a tradizioni e dicerie che trasudano orrore e che sembrano fagocitare l’infanzia poiché è con i deboli che si cerca espiazione e salvezza.
Questo mondo oscuro, in cui niente ha valore se non la pura sopravvivenza, è raccontato da Dalia, una bimba di otto anni, abbandonata dalla famiglia, ferita, sola. Il candore proverbiale dell’infanzia si è rotto in lei. Rimane solo un’attitudine sorda alla fantasia, alla salvezza.
La sua è un’apoteosi quasi biblica, che prima è abitudine, poi ribellione e dopo disfatta. Come ogni vittima consapevole, non sa trovare né giustizia, né perdono, né espiazione.
Sopravvivere. Se il corpo in qualche modo si abitua a temperature infernali e alla scarsità di cibo, la mente non può cessare di cercare colpevoli e capri espiatori. Dove c’è un pozzo non c’è cibo, medicine e armi. Dove ci sono armi non c’è di che sopravvivere. La fame fomenta gli animi e li rende audaci. E mentre i bambini scompaiono, il cibo non è solo più un mezzo ma diventa la metafora del potere e del compromesso. L’innocenza perisce e il male si può solo estirpare con la morte.
Ginevra Lamberti confeziona un romanzo potente e magico. Una favola nera che allontana il sonno e attira l’incubo, in cui la tematica ecologica si intreccia con l’involuzione sociale, un istinto animalesco e feroce che prende il sopravvento e spinge l’uomo verso le sue inclinazioni più basse. La sua scrittura mutua tempi, incedere e immagine dal folklore e dal mito e dalla favola trae l’attitudine feroce a soffocare il mondo dell’infanzia, a farne il parafulmine di ogni bassezza umana, a colpevolizzarlo e a farne il capro espiatorio di ogni maledizione e di ogni incantesimo.
In fondo non serve scomodare il fiabesco per raccontare l’infanzia violata. Ma farlo, da sempre, rende la violenza, il sopruso più sopportabile, meno orrendo di come appare. E questo semplice assunto è il cibo con cui ognuno è cresciuto, normalizzando, spesso, atteggiamenti violenti e delatori. Lamberti gioca con questo aspetto. Se ne serve con intelligenza ed efficacia per disegnare un mondo alieno e irriconoscibile che tuttavia serba in sé quell’impeto alla potenza che devasta e impera. Un mondo senza speranza per noi umani. E ancora di più per chi è debole e solo. Niente di nuovo, dunque. Niente di buono.
Il romanzo
Dalia, otto anni, dopo un incidente passa molti giorni in un ospedale che non è un ospedale perché il mondo non è più il mondo; viene dimessa, torna a casa, la casa è vuota, probabilmente tutti sono morti. Dalia, nei giorni di ricovero, conosce due bambini che hanno avuto pure loro un incidente: il bambino soporoso che non può parlare e Morena, che non si muove bene, ma riesce a scrivere. Uscita dall’ospedale, di quei bambini, Dalia per molto tempo non saprà niente. Senza famiglia, senza soldi e senza casa, Dalia viene accolta dalla vecchia Fioranna, che ha fatto la maestra, sa insegnare e sa difendersi. Fioranna insegna a Dalia due cose: che il mondo così come gli esseri umani l’hanno conosciuto esiste ancora ma è nascosto sulle montagne, e come seppellire un corpo. Così Dalia, dalla valle tiranneggiata dalla famiglia Boscarato, i padroni di sempre – perché il mondo non è più lo stesso, ma chi è padrone tale rimane –, ascende alla montagna e arriva al Villaggio dei Pozzi. Sapendo come accudire e come seppellire, Dalia sa come trattare i corpi vivi e morti, anche quelli non umani. È così che diventa l’assistente del macellaio Biagio e la dama di compagnia dell’eccentrica Orsola. Se in ospedale, da bambina, i compagni di Dalia erano il bambino soporoso e la bambina con la penna, nella sua età matura sono proprio loro: Biagio, il macellaio burbero perseguitato da una gatta bianca, e Orsola, la donna delle storie, che vive da sola in un albergo dismesso dove, come ormai ovunque, si è consumato un delitto.
La temperatura del mondo fluttua intorno ai cinquanta gradi, le coltivazioni stentano, il bestiame muore, in montagna c’è acqua ma non ci sono armi né medicinali, in pianura ci sono sia le armi che i medicinali, ma non ci sono né acqua né cibo. È naturale che i Boscarato, come fanno sempre i padroni, tentino di mangiarsi tutte le risorse. Ma quando la temperatura esterna è tanto alta il capitale umano è l’unica risorsa che resta, e mangiare non ha più un significato così metaforico.
Se Agota Kristof, nella Trilogia della città di K., ha scritto che si è davvero capaci di uccidere quando si ammazza qualcosa che non bisogna mangiare, se Cormac McCarthy, ne La strada, ha descritto esseri umani che sono riserve alimentari di altri esseri umani, Ginevra Lamberti narra come la produzione di massa cambia il racconto dell’uomo che mangia l’uomo. In un romanzo potente, per scrittura e immaginazione, in cui la tenerezza è prima di tutto un abisso, anzi un fosso, nel quale le prostitute vendono i gesti e le parole della cura e non quelli della seduzione – ammesso che ci sia differenza –, e dove il Veneto è un Far West e Venezia ha smesso di essere un pesce perché la laguna non esiste più, Ginevra Lamberti fonda la mitologia del cambiamento climatico, del rispetto dei morti senza il culto, delle leggende che si ripetono uguali e maledicono secondo maledizioni sempre nuove perché sempre nuove sono le colpe, e dell’amore, che dopo aver fatto movere il sole e le altre stelle, per secoli, adesso le fa implodere.
L’autrice
è nata nel 1985 e vive tra Roma e Vittorio Veneto. Dopo La questione più che altro, uscito nel 2015 per Nottetempo, con Marsilio ha pubblicato Perché comincio dalla fine (2019, premio Mondello 2020) e Tutti dormono nella valle (2022). I suoi romanzi sono stati tradotti in Germania, Cina, Francia, Regno Unito e Brasile. È editorialista del quotidiano Domani.
- Casa Editrice: Marsilio Editore
- Pagine: 272
- Prezzo: E 18,00
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